mercoledì 23 marzo 2022
Domenica i biancorossi possono già festeggiare la promozione, ma i tifosi e i puristi abituati al “patron barese” sono stanchi di essere considerati la “succursale” della famiglia De Laurentiis
Aurelio De Laurentiis, patron di Napoli e Bari

Aurelio De Laurentiis, patron di Napoli e Bari

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C’è un nuovo meridionalismo, quello calcistico. Il Sud è terra di conquista per i padroni del vapore che fanno collezione di club: De Laurentiis a Bari, Lotito a Salerno. Usurpatori? Sì, per i sostenitori dell’appartenenza e dell’identità «perché il Pallone deve essere espressione del territorio, deve essere fede, deve avere presidenti che hanno lo stesso Dna della squadra e lo stesso sangue dei tifosi, e non Napoli, Lazio, Bari e Salernitana insieme come fossero una frittura mista». Questi “puristi” non accettano repliche del tipo «il calcio è cambiato, è globale, le proprietà sono di chi ha i soldi, degli americani, dei cinesi… guardate le serie A, guardate il Milan, l’Inter, la Roma, la Fiorentina… non ci sono più i Rizzoli, i Berlusconi, i Moratti, i Viola, i Cecchi Gori». Al di là del meridionalismo estremo, c’è che i casi di Bari e Salernitana, sono l’emblema della provvisorietà e della confusione che regna nella repubblica pallonara.

Il Bari sta andando spedito verso la serie B (domenica con la Fidelis Andria può festeggiare la promozione) dopo gestioni avventurose, seguite al regno dei Matarrese Ma tre stagioni è una “succursale” del Napoli di Aurelio De Laurentiis, l’uomo del cinepanettone, che ha incoronato presidente il figlio Luigi. Dichiarazioni di amore ripetute: «Il Bari non è un’avventura, non è un passatempo, non è un giochino, pensiamo al massimo». Il massimo? Il fatto è che la Figc, scottata dalla grana Lotito-Salernitana, ha messo al bando la doppia proprietà, per cui entro il 2024 De Laurentiis deve scegliere: cedere il Napoli o il Bari! Colleghi informati riferiscono di una tentazione diabolica di don Aurelio: cedere il Napoli a fondi americani (“Elysian Park” tra i possibili pretendenti) per realizzare una consistente plusvalenza e puntare sul Bari con l’ambizione di farlo diventare grande in serie A.

Mah... Sembra fantascienza, considerando la storia napoletana, illuminata dal santo Maradona. Però la Puglia è diventata il set numero uno d’Italia e i De Laurentiis sono gente di cinema. Il popolo barese gradirebbe? I “puristi” no, perché hanno nostalgia di un presidente made in Bari, «uno di Noi», uno che si consumi di amore per la squadra ventiquattro ore su ventiquattro. I pragmatici, invece, applaudirebbero alla soluzione De Laurentiis, convinti che Bari-città non abbia un imprenditore solido, interessato a investire nel calcio: non ci sono più i Matarrese e i De Palo (il ginecologo gentiluomo) appartengono a un mondo diverso, quando le società erano gestite con i risparmi e con la passione. Allora? Il futuro del Bari è tutto da scrivere.

Come è da scrivere tutto il futuro del calcio meridionale che insegue la serie A perduta e deve necessariamente convertirsi al verbo dei presidenti che spesso vengono da altrove o per presunto investimento o per vocazione («Da grande, voglio fare il presidente, qua o là, non importa dove»). Intanto, a parte i club scomparsi nell’inferno delle serie inferiori e dilettantistiche (Brindisi, Matera), c’è da consolarsi appunto con il Bari, con il Lecce (spera nella promozione in A), con il Foggia rivitalizzato dal profeta boemo Zdenek Zeman, ritornato per la quarta volta nella sua patria felice dello Zaccheria (Zemanlandia). Mancano all’appello le nobili siciliane Catania e Palermo, ora in C dopo stagioni da favola in A sotto le gestioni vulcaniche di Pulvirenti e Zamparini.

Ora non restano che le favole del passato da raccontare ai bambini. Come quella del cavalier Luigi Pignatelli, presidente del Taranto a metà degli anni ’80. Piccolo di statura e rotondetto, con una statua di Sant’Antonio sollevata al cielo, prima della partita, faceva il giro dello stadio tra gli applausi della folla urlante: «U cavalie’, u cavalie, u cavalie’ alè alè». Su di lui un’aneddotica alla Lino Banfi. Passata alla storia un’intervista in tv. Il cavaliere, impettito, continuava a dire: «Abbiamo andati per fare punti, però...». Il giornalista lo corresse: «Siamo andati, cavaliere». E Pignatelli, stizzito, gli rispose: «Perché, sei venuto pure tu?». Sempre a Taranto, c’era il presidente Giovanni Fico, macellaio, fama da duro, con minacce continue ai cronisti («Se non scrivi la verità, ti infilo il coltello nello stomaco»).

Duro con tutti, ma ubbidiente alla mamma da eterno bambino: ogni sera rientrava alle 20, senza sgarrare. Ecco, il calcio una volta, nel Sud caro a Pier Paolo Pasolini, era un mix tra colore e improvvisazioni, con escalation miracolistiche come quella del Matera, che arrivò in Serie B per l’abilità di un presidente- faccio-tutto-io, di nome Franco Salerno, senatore Dc, ex arbitro, sempre con le tasche della giacca piene di semi di zucca che masticava a mo’ di tranquillante. Adesso, il Pallone è ben altra cosa. Soldi, soldi, soldi.

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