giovedì 19 febbraio 2009
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In Lesotho, circa il 70% dei due milioni di abitanti non ha accesso diretto alle risorse idriche. Eppure, da dieci anni il Paese è un esportatore d’acqua. Da quando, cioè, sulle Highlands è sorta la diga di Katse, la più grande di tutta l’Africa, che sottrae milioni di litri al fiume Arancione per spedirli verso il distretto industriale di Johannesburg, nel confinante Sudafrica. Il tutto con il beneplacito - e i soldi ­della Banca mondiale. Dall’altra parte del mondo, la regione tra Azerbaigian, Georgia e Turchia è attraversata da ben 1760 km di tubature: quelle dell’oleodotto Baku- Tbilisi­Ceyhan ( Btc) per realizzare il quale - sempre grazie al sostegno della Banca mondiale - i governi dei tre Paesi interessati sono stati forzati a firmare accordi che sovrascrivono la legislazione ambientale, sociale, del lavoro e dei diritti umani nel corridoio dell’oleodotto, favorendo gli standard dell’industria petrolifera. Due esempi tra i moltissimi che si potrebbero scegliere per dimostrare come l’operato dell’istituzione nata nel 1944 a Bretton Woods per favorire la ricostruzione e lo sviluppo « sia profondamente politico e a vantaggio dei Paesi donatori e di poche élite, e non a favore dei più poveri » . È la tesi sostenuta da Luca Manes e Antonio Tricarico nel libro La banca dei ricchi. Perché la World Bank non ha sconfitto la povertà ( Terre di Mezzo, pagine 102, euro 9,00), in cui gli autori, di fronte all’evidenza di un mondo in cui gli obiettivi di sviluppo per tutti continuano inesorabilmente a venire mancati, ripercorrono le tappe di oltre sessant’anni di esistenza della Banca, mettendo in luce le forti contraddizioni intrinseche a un’istituzione che necessiterebbe - come minimo - di un rinnovamento sostanziale. Tricarico, coordinatore della Campagna per la riforma della Banca mondiale ( Crbm), e Manes, giornalista e responsabile della comunicazione per la stessa Crbm, puntano il dito contro i meccanismi di governance dell’ente, spiegando come la distribuzione dei seggi nel suo Board rispecchi equilibri sorpassati, con i Paesi più poveri e le economie emergenti largamente sottorappresentati. Tra le accuse mosse ai banchieri di Washington c’è la scelta di privilegiare i finanziamenti a opere infrastrutturali dal vasto impatto ambientale e sociale e l’eterna opzione per i combustibili fossili: le dieci società petrolifere più grandi del pianeta sono in testa alla lista delle imprese che hanno ricevuto più fondi dalla World Bank negli ultimi 12 anni. « Come dire che prima si aiutano le multinazionali a devastare l’ambiente e le comunità locali pur di accaparrarsi l’oro nero, e poi con una parte di quei profitti ­ovviamente limitata - si cerca di aiutare lo sviluppo di chi è stato impoverito » , commentano gli autori. I quali, per delineare « le ricette economiche di un fallimento » , chiamano in causa i famigerati Programmi di aggiustamento strutturale, ' inventati' per fare uscire il Sud dalla crisi del debito generatasi negli anni Settanta. I Paesi furono forzati a realizzare riforme volte ad aprire le proprie economie puntando sulle esportazioni e ad adottare misure drastiche per liberare risorse: riduzione della spesa pubblica, tagli nei servizi di base, privatizzazione delle industrie di Stato. Iniziative che, anziché rilanciare lo sviluppo, finirono per indebolire ulteriormente le economie del Sud e minare i nascenti processi democratici. Eppure la Banca non ha imparato dai propri errori: ancora oggi ogni accordo per la concessione di un credito ai Paesi più poveri contiene fino a 67 condizionalità che richiedono di privatizzare o liberalizzare settori sensibili. « È giunto il momento di denunciare con fermezza ­scrive Susan Gorge nella prefazione al libro - la cecità e l’arroganza dell’istituzione che più di ogni altra ha contribuito a distruggere le vite dei poveri » . Qualcosa - in effetti - sta cambiando. Se da una parte, alla prova dei fatti, la scelta di affidarsi totalmente alle esportazioni ha mostrato tutta la sua debolezza, anche il dogma della « salvezza nel privato » comincia ad essere messo in discussione. In Tanzania il governo, spinto nel 2003 ad avviare un processo di privatizzazione della fornitura d’acqua, disse basta dopo soli due anni: in quel periodo infatti la già gravissima situazione della gestione idrica ( solo il 4% di abitazioni dotate di acqua corrente) era ulteriormente peggiorata. Che fare, allora, per ridare autorevolezza a un’istituzione in evidente crisi di credibilità? Per Tricarico e Manes, che sostengono la necessità di una democratizzazione interna all’ente, servirebbe un ripensamento sulla natura stessa della World Bank, in una nuova chiave di promotrice dei « beni pubblici globali » . Un ruolo per cui necessiterebbe di una logica meno bancaria e più « da fondo di mutuo soccorso » a cui tutti i Paesi contribuiscano, secondo responsabilità diverse, e a cui tutti accedano per far fronte alla stessa emergenza. Le alluvioni in Bangladesh, insomma, sullo stesso piano dell’uragano Katrina. Nel nuovo mondo globale è ancora più chiaro come lo sviluppo sia un obiettivo che può essere perseguito solo insieme. La sede della Banca Mondiale a Washington.
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