martedì 12 maggio 2020
L’ex portiere che a 56 anni gioca attaccante, il giorno del 2° scudetto laziale, 14 maggio 2000, era in campo: «Juve penalizzata dal diluvio a Perugia? Quella Lazio meritava anche di più»
La Lazio campione d’Italia 1999-2000: da sinistra Marco Ballotta, Salas, Veron e Sensini

La Lazio campione d’Italia 1999-2000: da sinistra Marco Ballotta, Salas, Veron e Sensini - .

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Vent’anni dopo: «Eravamo seduti nello spogliatoio dell’Olimpico, avevo tolto i guanti e mi mordevo le mani dall’emozione. “Gol della Juve... No, annullato!”. Tutti ad abbracciarci... eravamo campioni d’Italia». Vent’anni dopo il secondo e ultimo scudetto della Lazio, questo è l’amarcord di un portiere di lotte come Marco Ballotta. Quel giorno, il 14 maggio del 2000, lui era in campo nella gara-tricolore Lazio-Reggina (3-0). Piccola premessa prima di tuffarci nell’epica impresa biancoceleste: Ballotta, che vanta il record di calciatore più anziano ad aver disputato una gara di Champions (a 43 anni e 252 giorni, in Real Madrid-Lazio) alla veneranda età delle 56 primavere compiute va ancora in campo. «Sono tesserato per il Castelvetro, società di Eccellenza emiliana di cui sono anche il presidente. Ma non sto più in porta... Dopo una vita tra i pali voglio divertirmi, sono passato in attacco. Qualche gol lo segnavo già nelle partitelle d’allenamento. E poi – sorride – diciamoci la verità, con i piedi ero più forte di Luca Marchegiani».

Lui era il portiere titolare e Ballotta il vice in quella Lazio che lo scudetto lo aveva inseguito e visto sfumare la stagione precedente, per poi agguantarlo negli ultimi 90 minuti all’inizio del nuovo millennio, quando ormai sembrava una chimera. «Quella domenica non toccava più a noi. La Juventus di Zidane, Pippo Inzaghi e Del Piero, aveva un punto di vantaggio e giocava contro un Perugia che non aveva più nulla da chiedere... E invece, è accaduto l’inimmaginabile». Nella “piscina” di Perugia, sotto il diluvio universale del Curi, al 49’ arrivò la zampata “salvaLazio” del centrale difensivo Calori. Al triplice fischio, il cielo umbro si era placato e a quel punto cominciò la tempesta bianconera.

Polemiche contro l’arbitraggio “sfavorevole” di Collina, e in casa Juve anche vent’anni dopo ritengono che quella partita era assolutamente da sospendere. «Non sono d’accordo – dice Ballotta – . Collina non ha sbagliato. La Juve piuttosto, specie nel primo tempo, mancò una quantità industriale di gol… e alla fine nel calcio ci sta che Davide batta Golia. Con il senno di poi dico che quello scudetto ce lo meritavamo, anzi era arrivato con un anno di ritardo». La memoria di cuoio di Ballotta torna a quel Fiorentina-Lazio, 2-2 del 15 maggio 1999. «A Firenze ci venne vergognosamente negato un rigore sacrosanto su Salas... L’arbitro di quella partita, Treossi, l’ho rivisto anni dopo e glielo rinfacciai. Si difese con un “mi dispiace, ma non l’avevo visto”. Gli ho creduto? Devo crederci, però i sospetti che avevo allora poi sono stati confermati sei anni dopo con lo scoppio di Calciopoli».

Ma non affondiamo nel fango del dio pallone, restiamo alla Lazio stellare del presidente Sergio Cragnotti che, con investimenti faraonici portò il club romano all’apice, n. 3 del ranking mondiale. «Cragnotti ha dato tanto alla Lazio, quotò il titolo del club in Borsa: andava tutto troppo bene, poi c’è stato il crac sull’asse Parmalat-Cirio e il giocattolo si è rotto... Peccato, perché quella Lazio avrebbe potuto, anzi dovuto, vincere molto di più». Sette giorni dopo lo scudetto vinse la Coppa Italia (finale con la Juve), aveva conquistato l’ultima edizione della Coppa delle Coppe. «Ma l’anno prima – ricorda Ballotta – nella finale Uefa con l’Inter arrivammo in condizioni fisiche pietose e Ronaldo, il “Fenomeno”, ci fece tanto male».

Dalla debacle europea di un altro maggio, ’98, quel gruppo guidato dall’algido Sven Goran Eriksson, iniziò la scalata al paradiso. Il tecnico svedese disponeva di una rosa talmente zeppa di campioni, «c’erano 22 nazionali » al punto da permettersi di cedere – dopo il ritiro estivo – Kenneth Andersson al Bologna. «Ed è stata la sua fortuna. Andersson in quella Lazio con davanti Boksic, Salas, Simone Inzaghi e Roberto Mancini non avrebbe trovato spazio». Ma più che l’attacco, era il centrocampo il vero tesoro tecnico, una sorta di resto del mondo: Veron, Simeone, Nedved (Pallone d’Oro 2003) Conceiçao, Sensini, Almeyda...

«Vero, ma vogliamo parlare della difesa? Gli esterni Negro e Favalli erano una garanzia e noi portieri davanti avevamo la “grande muraglia“: Alessandro Nesta e Sinisa Mihajlovic. Nesta chiudeva tutti i buchi possibili, giocatore mondiale, infatti poi l’ha vinto nel 2006. Sinisa, aveva un carattere particolare, si infiammava per nulla, andava tenuto a freno, ma in campo la sua esplosività faceva la differenza. Da allenatore è diventato più riflessivo e dopo l’ultima prova della malattia è uscito fuori il cuore e il cervello del grande uomo che è». Si emoziona Ballotta a parlare dell’amico Mihajlovic: «A Bologna, dove abito, lo vedo spesso... Gli altri dello scudetto? Sì, con alcuni ci sentiamo, ci ritroviamo alle partite di beneficenza della “Di padre in figlio”, la nostra squadra di ex».

Un legame indissolubile e incontri annuali tra i reduci vincenti della Lazio del 2000. Ma all’appello di Ballotta manca Eriksson. «Del mister abbiamo perso le tracce, non smette mai di girare e di allenare per il mondo... Grande allenatore? Eriksson era il giusto gestore per una squadra di campioni come quella. La sua calma serafica e la capacità di ascoltare i nostri suggerimenti dal campo – perché a volte va detto, non aveva una lettura precisa a gara in corso – hanno fatto superare problemi e frizioni, e così quel gruppo è riuscito a centrare quel traguardo storico».

Un gruppo dal quale sono usciti allenatori di prima fascia, come Diego Simeone: «Diego era sempre l’ultimo ad arrendersi in campo e questa tenacia si vede anche nel suo Atletico Madrid, una squadra che lo rispecchia in maniera esagerata». Il ct Roberto Mancini: «Roberto era allenatore in campo già alla Samp, alla Lazio era venuto a perfezionare il “corso”. Mancio è nato leader, sa comandare, è il selezionatore ideale per il calcio italiano in questi anni di ricostruzione». E infine Simone Inzaghi, l’allenatore della Lazio attuale che, prima dello stop da Coronavirus stava tentando di calare il tris tricolore.

Di lui, Eriksson di recente ha detto che non si aspettava di vederlo diventare un tecnico di alto livello qual è. «Devo essere sincero? Neppure io ci credevo. Simone da giocatore sembrava un po’ superficiale, ma è cresciuto a pane e pallone e con il tempo ha affinato le sue capacità tattiche. E poi è un vero “uomo-Lazio”, sono vent’anni che vive e lavora a Formello, conosce tutto e tutti». Ma il segreto di questa Lazio formato scudetto pare risieda nella stanza dei bottoni dove operano il suo padre patron Claudio Lotito e il fido dg Igli Tare: «Una bella coppia, gente che sa dove vuole arrivare. Tare è un grande conoscitore del calcio internazionale, fa comprare a poco per rivendere al massimo. Con Lotito la seconda volta, quando sono rientrato alla Lazio nel 2005, non ci siamo lasciati bene... Però gli va dato atto che, nonostante le critiche e le contestazioni pesanti dei tifosi, dopo tutti questi anni ha avuto ragione lui».

Ma la consacrazione, per tutti, ora passa dalla conquista del terzo scudetto. Obiettivo possibile?. «Prima dello stop la Lazio giocava il miglior calcio e ha battuto la Juventus due volte, in campionato e in Supercoppa italiana. È una squadra che ha trovato la continuità, quindi tutto è possibile». L’ultimo erede della porta laziale è l’albanese Thomas Strakosha, il quale ha definito la Lazio la squadra degli Avengers e lui è “Spiderman”. «Strakosha ha ancora qualche difettuccio di fabbrica: esce poco dai pali e non comanda sempre la difesa con la giusta personalità, ma è giovane e può ancora migliorare, tanto».

Si migliora solo giocando, ma quando si potrà riprendere? «Qualsiasi cosa si decida in questo momento sembra sbagliata: se si riparte come la Germania, si gioca solo per ragioni finanziarie a scapito della salute dei giocatori. E le partite a porte chiuse poi... sono la morte civile: senza tifosi allo stadio il calcio non ha alcun senso. Io sarei per ripartire in sicurezza a settembre: a fine ottobre hai chiuso la stagione e puoi ricominciare la prossima. Sta di fatto che questo virus credo che economicamente, e non solo, ci riporterà indietro di 40 anni... giravano meno soldi ma almeno bastava poco per stare bene, e per capirsi era sufficiente uno sguardo, una stretta di mano. Oggi vedo la gente che spende tanto e non si diverte più, e allo stare insieme, ha anteposto l’amicizia sui social che non è mai vera amicizia… – conclude Ballotta – . Nel calcio il mio vero grande amico non giocava in quella Lazio, ma era stato mio compagno nel Modena, Paolo Ponzo. Fortissimo, una vita da mediano, Paolo era un ragazzo di una sensibilità e di un’intelligenza che poco aveva a che fare con il mondo del pallone. Ma questa è un’altra storia».

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