giovedì 31 marzo 2016
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Ci sono tappe della storia, stagioni come questa che stiamo vivendo, che assomigliano a una fatalità che è necessario sopportare. C’è tuttavia anche una controstoria: un’alternativa che sanno scorgere transfughi, esiliati, visionari o ribelli che hanno creduto (e credono) nella possibilità di sfuggire al senso unico del loro tempo. Questa mattina, seduto in un caffè, mi è venuta in mente la figura di Hugo Ball. Ball veniva da una famiglia tradizionale della borghesia tedesca. Studiò storia e filosofia a Monaco e ad Heidelberg. Tra il 1909 e il 1910 lavorò a una tesi di dottorato su Nietzsche, che non arrivò poi a presentare. Si sentiva tentato a sostituire le aspettative accademiche con interessi meno usuali: l’anarchismo, la mistica e il teatro di avanguardia. Quando scoppia la guerra, si offre volontario. E lì si produce la chiarificazione. L’esperienza interiore dei combattimenti si rivela così devastante che Hugo Ball diserta, marchiato a fuoco come traditore. Valica la frontiera svizzera e va a stabilirsi a Zurigo. Nella nuova città approfondisce le sue relazioni nell’ambiente artistico. Conosce, per esempio, Tristan Tzara, da poco sbarcato da Bucarest. Ball lo convince a unirsi a una banda di dissidenti che da un caffè all’altro andavano sognando un’insurrezione degli spiriti. Nello stesso periodo di tempo tratta con il proprietario di una taverna l’affitto della sala sul retro per aprirvi un cabaret letterario, assicurando al padrone che in quel modo avrebbe aumentato le vendite di birra. A corto di mezzi per avviare i necessari interventi di ristrutturazione, Ball chiede in prestito, ad amici pittori, dei quadri per nascondere le pareti. E così quella spelonca poteva esibire opere di Kandinsky e di Klee, di Picasso e di Modigliani, e di altri ancora. Il primo sabato di febbraio del 1916 giunse finalmente il momento dell’inaugurazione. Una notte di musica, letture di manifesti, teorie e immagini. Con poeti che declamavano non poesie ma onomatopeie, decisi a terremotare le convenzioni, muniti unicamente della decostruzione del linguaggio o di invenzioni sonore. A giugno esce la prima e unica edizione della rivista Cabaret Voltaire, ed è allora che appare la parola 'dada' per designare il nuovo movimento. Il mese successivo, Hugo Ball legge, vestito con un abito di cartone, un costume tra il clownesco e il sacerdotale, quello che sarebbe stato ricordato come il primo manifesto dada. E spiega: «La parola è incapace di significare le esperienze più profonde. Per questo occorre sputare le parole (linguaggio vacuo, anestetizzante, della società) e raggiungere una zona incomprensibile, immarcescibile». Che cos’è il dadaismo? I dadaisti non si preoccupano di ciò che è o di ciò che non è. Certamente il dadaismo non era arte, o non era quell’arte patrocinata dal medesimo Stato che sfruttava la violenza della guerra. L’arte si preoccupava dell’estetica e della sensibilità: il dadaismo si pensa piuttosto come una ribellione, o un ammutinamento. L’arte cercava un messaggio: il dadaismo si sforza di non avere alcun significato. È altro. Chiede alla società di diventare altro. Rifiuta la sequenzialità, l’articolazione e l’ordine, tipici dei discorsi impositivi. Per comporre una poesia, per esempio, i dadaisti propongono il metodo seguente: 1) Prendere un giornale; 2) Prendere delle forbici; 3) Scegliere un articolo; 4) Ritagliare l’articolo (prima tutta la pagina, poi parola per parola) e mettere il tutto in un sacco; 5) Agitare il sacco; 6) Tirare fuori le parole a casaccio e trascriverle una dopo l’altra. Stamattina, seduto in un caffè, penso a Ball, dadaista e cattolico fervente, masticando, senza far rumore, una frase di Hölderlin: «Dove c’è pericolo cresce anche ciò che salva». © RIPRODUZIONE RISERVATA Chiamate in attesa
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