venerdì 26 luglio 2013
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Mi vergogno sempre quando devo parlare di questioni troppo importanti perché non mi sento all’altezza. Figuriamoci a parlare di Ranchetti, di don Milani, di Balducci. Ho però realizzato nel corso della mia vita riviste con cui Ranchetti ha collaborato assiduamente, dove abbiamo pubblicato spesso anche scritti o studi di don Milani e di Balducci. lo credo che ci siano in questi tre personaggi – in altri anche come loro – alcune cose che colpiscono e che rimandano tutte al pensiero religioso. Sono tutti e tre mossi da un’istanza religiosa, da un afflato, una trascendenza, che li porta a pensare che ci sia qualcosa di più importante dell’individuo rispetto al quale bisogna definirsi, bisogna agire. Solo che il loro modo di declinare il pensiero religioso è molto diverso l’uno dall’altro. Balducci in particolare era un personaggio estremamente notevole, perché è stato tra i tre quello che maggiormente ha rappresentato un “ponte”. Si è assunto un compito di tipo più politico, più sociale, più interno a una responsabilità nei confronti della storia diretta dentro la politica. Per Balducci il tema centrale era la pace e quindi la politica, il modo di arrivare a stimolare, a fare qualcosa. In questo era molto vicino a Giorgio La Pira, alla sua idea di lavorare soprattutto in funzione di questo “ponte”. In don Milani mi pare che l’elemento prevalente nel modo di declinare la sua religiosità sia stato quello della pedagogia. Non a caso Lettera a una professoressa è rimasto. Certo, ha scritto anche altre cose di tipo religioso, di tipo morale, ha scritto quel volume straordinario e bellissimo che è Esperienze pastorali, libro da grande sociologo, da grande antropologo dell’Italia prima del boom. In qualche modo ne prevede certe storture: per esempio in quel capitolo straordinario che si chiama Ricreazione se la prende col modello comunista delle case del popolo che diventano balere, che diventano divertimentifici, come fu detto poi a proposito della Romagna rossa. Se la piglia con i parroci e le parrocchie perché pensano al biliardino e alle partite di calcetto invece che a preparare i loro bambini, i loro ragazzi a un futuro di battaglia, un futuro di responsabilizzazione molto forte. Divertire e non far pensare invece che far crescere facendo pensare, facendo assumere delle responsabilità forti. Michele Ranchetti invece dei tre è la figura forse più intellettuale, meno politica perché è un filosofo, si occupa di storia della religione, scrive poesia, dipinge. Insomma è una figura più complessa, più vasta che però per esempio nella poesia e nei suoi scritti di storia, nelle sue riflessioni teoriche e filosofiche, mi sembra che abbia come proprio tema centrale la finitezza: i limiti dell’esperienza umana, i limiti della storia, i limiti della biografia dell’uomo. Insomma il bisogno di rompere questi limiti, di guardarli in una chiave attiva di chiarificazione che porti poi anche a delle mutazioni. Tutti e tre credo vadano studiati cercando di ricondurre la loro esperienza, la loro idea, al presente: certo, uno storico li può collocare nella loro epoca.
Io per esempio li ho conosciuti – ero maestro elementare – proprio sullo sfondo di una storia precisa che è quella della Firenze prima del boom negli anni ’50. La chiamavamo “la piccola Atene” perché era il posto di Pratolini e di Bilenchi, Pratolini voleva dire via del Corno, via dei Magazzini. Nelle prime visite a Firenze correvamo a vedere questi posti, dal quartiere di Santa Croce alle ragazze di San Frediano. Ma anche l’editrice Vallecchi, la Nuova Italia che era centrale del pensiero pedagogico, la Scuola Città che aveva un’esperienza pratica nella Pestalozzi. Nella Nuova Italia lavorava per esempio un altro grande personaggio e grande amico che era Sebastiano Timpanaro. Anche lui aveva strani legami pure nel suo “materialismo volgare” – come lui sosteneva – con don Milani in quanto era anche un finissimo studioso di linguistica. Era figlio del noto Timpanaro e era legato a Comparetti, il nonno di don Milani. Era un’epoca abbastanza straordinaria per Firenze e su questo sfondo questi personaggi hanno finito per andare oltre, per superare l’epoca. L’epoca è finita col miracolo economico come sono finite tante cose in Italia, come tante speranze di poter avere un Paese diverso. È finita l’epoca e ci siamo ritrovati a dover pensare ai modi di coniugare un’idea di minoranza attiva presente, minoranze etniche, minoranze responsabili all’interno del mondo venuto dopo. Di fatto abbiamo vissuto due enormi mutazioni: la prima è quella del boom con l’Italia che diventa da Paese di contadini e analfabeti a uno dei centri – sesto o settimo sul piano della produzione industriale nel mondo – più importanti, anche molto concupito. Credo che tutte le stragi e i disordini che ci sono stati negli anni dopo il ’68 in avanti, siano dipesi anche dal fatto che eravamo al centro del Mediterraneo, eravamo ancora con i due blocchi, eravamo luogo dove la lotta politica che si vedeva alla luce del sole – quella che ha portato poi via via fino alla morte di Moro – e la lotta sotterranea fossero ugualmente vistosi, ugualmente evidenti.
La seconda enorme mutazione è quella del digitale, dell’economia finanziaria, quella della tecnica che sovrasta poiché agisce in profondità, talmente in profondità che ci accorgiamo dei suoi effetti quando è già troppo tardi per combatterli. Pensate all’ambiente: ormai è troppo tardi per porre rimedio alle storture che questo modello della tecnica, questo tipo di economia hanno provocato. Mi pongo un problema: come possiamo giudicare questi tre grandi personaggi, Milani, Balducci e Ranchetti? Come dei perdenti? Forse sì. Più che perdenti siamo credo tutti sopravvissuti alle nostre epoche e stiamo adesso sopravvivendo – male, certamente molto in disordine – anche a quella attuale. Io li vedo non tanto come dei perdenti. Passeggiando una volta con Capitini per Percorso Lannucci a Perugia, fummo fermati da un amico comunista disperato perché non so quale elezioni aveva perso. Diceva; «Abbiamo perso, professore, abbiamo perso». Capitini si fermò, lo guardò con un’aria un po’ ironica e disse: «Io non gareggiavo». Non perdenti. Diciamo invece “non vincenti”. Forse è un’altra definizione di questo tipo di personaggi che partecipano alla storia buttandoci veramente tutte le loro energie, cercando di partire dalle cose che possono fare, che sanno controllare, da ciò che interessa anche la loro personalità, la loro peculiare vocazione perfino professionale, non solo intellettuale, e agiscono nella storia. Ma si possono chiamare perdenti? Chi sono i vincenti? I vincenti di oggi della politica sono piccole foglie al vento, nel vento della storia, nel vento di questa mutazione, nel vento di un’epoca che non si sa bene dove sta andando, ma certamente pone dei problemi alle minoranze più gravi di quanti ne ha commessi in passato.
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