giovedì 23 novembre 2017
L’attore in scena con la sua traduzione dal veneziano all’italiano delle “Baruffe chiozzotte”. «Un’idea dello Stabile di Torino. Occasione per rimediare ai danni della tv che distrae la gente»
Natalino Balasso, da trent’anni attore teatrale ma noto al grande pubblico grazie alla televisione

Natalino Balasso, da trent’anni attore teatrale ma noto al grande pubblico grazie alla televisione

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«Una commedia di poveri, dove ricchi e potenti sono assenti» nel cui linguaggio a prevalere «è il più alto fraseggio goldoniano, il suo straordinario repertorio ritmico e comico». Come spiega il regista Jurij Ferrini Le baruffe chiozzotte, nuova produzione del Teatro Stabile di Torino dove ha appena debuttato per rimanere fino al 17 dicembre, sono una vetta del teatro in dialetto di Goldoni. Un capolavoro non molto frequentato dai nostri palcoscenici, dopo la storica versione di Strehler a metà degli anni ’60. Per renderlo più popolare alle orecchie di oggi Ferrini ha pensato di affidare la traduzione in italiano alla vena comica di Natalino Balasso da Porto Tolle (Rovigo). Autore, comico, attore di cinema e teatro, che però il grande pubblico ricorda soprattutto per gli sketch a Zelig e Mai dire gol dei primi anni 2000, mentre la sua trentennale carriera va dai film con Mazzacurati agli sferzanti monologhi sino all’interpretazione de Il giardino dei ciliegi per Valter Malosti.

Qual è il suo rapporto fra teatro e tv?

«Io il teatro lo faccio da 30 anni, la tv è un hobby, l’ho fatta un paio d’anni. Il problema è che in Italia a teatro ci va pochissima gente. Massimo Popolizio ha detto una cosa che condivido in pieno: il problema del teatro italiano è il pubblico che ha una capacità critica pari a zero, non distingue un attore bravo da uno scarso. La gente è distratta perché la distrazione della gente è la missione della tv. Idem sui social: la vita non è realtà aumentata».

Forse per attrarre un pubblico “distratto” si traduce Goldoni in italiano. Non le sembra un azzardo?

«Il Teatro Stabile di Torino e il regista Ferrini mi hanno chiesto una traduzione del testo che cerchi di essere molto aderente all’originale. La tendenza a tradurre dal dia- letto avviene perché il pubblico è diventato molto più chiuso. Nonostante si parli tanto oggi di territorialità dobbiamo con rammarico notare che cinquant’anni fa si recitava in veneziano, napoletano, siciliano in tutta Italia. La lingua teatrale è comprensibilissima. Comunque l’esigenza odierna di tradurre deve diventare una opportunità e non un limite. In fondo ho recitato nei Rusteghi tradotti con la regia di Gabriele Vacis e funzionava».

E lei da teatrante come ha fatto?

«Le baruffe chiozzotte sono un testo interessantissimo perché è scritto in un veneziano con delle parole e delle finali che assomigliano al particolare dialetto chioggiotto. Goldoni stesso, quindi, fa una prima traduzione del testo. Per mantenere il colore delle battute sono partito dai vari linguaggi dei personaggi. Il Cogitore è veneziano, parla più forbito perché conosce la legge, oltretutto è il mestiere che faceva Goldoni prima di fare teatro. Lui ha scritto una sorta di Un giorno in pretura, una commedia delle miserie umane che diventa vivace con baruffe e liti, ma piena di affetto. Poi c’è paron Fortunato, che parla un chioggiotto improbabile perché pronuncia male le parole. Qui abbiamo lasciato le battute originali di Goldoni».

Come veneto, quale rapporto ha con i grandi autori della sua terra?

«Io non scriverei come scrivo per il teatro se non avessi mai letto Meneghello e Zanzotto, perché entrambi hanno fatto un lavoro sulla lingua italiana e sul dialetto trattandoli allo stesso modo. Sono autori abbastanza odiati dalle istituzioni perché critici nei confronti di un certa “veneticità” propagandata dalla Lega. Il dialetto è quello che riesce a esprimere il linguaggio delle viscere, ma è ridicolo usarlo come una lingua per gli atti burocratici al posto dell’italiano, facciamo solo opere comiche».

Nei suoi monologhi anche Natalino Balasso è spesso critico con la società.

«Ora sono in scena con Delusionist, ed è un dialogo con una brava attrice della nuova generazione, Marta Dalla Via. Si immagina che esista una pillola per stare sempre svegli in modo da produrre sempre di più, in un mondo dove il riposo è una colpa. Oggi siamo al paradosso in cui nessuno riesce più a trovare lavoro, ma chi lavora, lavora tantissimo, siamo al ridicolo in cui al posto di godere un tramonto lo fotografiamo per postarlo sui social, o invece di godere anche di un semplice abbraccio di un amico o di una persona amata, preferiamo i siti porno. Viviamo una realtà rappresentata».

Lei è sia regista in proprio sia a disposizione di altri registi per Cechov, Beckett, Baricco...

«Io scrivo commedie per lo Stabile del Veneto, come la trilogia Cativissima, in cui dirigo degli attori con una regia partecipata. Credo che il teatro sia fatto da attori e spettatori, il regista può anche non esserci. Come interprete al cinema e in teatro lo faccio solo con registi che mi incuriosiscono».

C’è anche un Balasso inedito, appassionato di testi sacri e religioni, ma anche critico con le istituzioni. Lei ha studiato in seminario, giusto?

«Lei vuole sapere come mai io sono diventato un mangiapreti? (ride, ndr). Sono entrato in seminario in prima media, spinto dalla famiglia: quei cinque anni li ricordo con grande affetto, sono molto contento di esserci stato. Studiare in seminario mi ha messo la curiosità di approfondire i testi sacri e l’aspetto religioso della vita, in senso più ampio partire dalle religioni primordiali. Ho scritto L’idiota di Galilea, monologo in cui è protagonista un garzone di bottega che sta costruendo una croce. Racconto il dilemma dei semplici, il fatto che partecipano all’uccisione dei santi ma in fondo sono gente buona. Il sentimento religioso fa parte dell’uomo, è un aspetto del pensiero che mi attrae. Ma sono critico con le strutture burocratiche piramidali sociali, qualunque esse siano. Non amo una organizzazione del pensiero, il pensiero dovrebbe essere una cosa libera».

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