giovedì 5 marzo 2015
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Tra l’ottobre e il novembre del 1943, poche settimane dopo l’armistizio che il governo Badoglio firmò con gli angloamericani, a Lisbona ebbe luogo una manovra di annientamento dei nostri servizi segreti militari, ad opera dell’artiglio mortale dell’Intelligence Service britannico. Un episodio sconcertante, privo di analogie storiche documentate e rimasto finora occultato, nel quale emerge la responsabilità inquietante dello stesso maresciallo d’Italia, successore di Mussolini alla guida del governo. A narrarlo, in un fondo di documenti inediti ed esplosivi che si conserva all’Archivio di Stato di Como, è il generale Vittorio Emanuele Terragni, uomo di grande esperienza nel settore dei servizi informativi, che fino al novembre del ’43 fu addetto militare presso la nostra Regia Legazione nella capitale portoghese.  Terragni, nato a Tortona nel 1894 e morto a Milano nel 1969, serbò il segreto su questo episodio di cui solo le carte private versate dagli eredi agli archivi statali sono in grado ora di svelare ogni dettaglio. Che cosa accadde, esattamente, a Lisbona, oltre 70 anni fa? In sostanza, i servizi segreti inglesi compirono un’escalation di pressioni d’inaudita violenza sui responsabili dei locali Centri di spionaggio e controspionaggio del Regio esercito, allo scopo di ottenere la consegna di tutti i dati altamente sensibili utili a far crollare l’intera nostra rete di intelligence militare del Sim. Ma, quel che è più grave, i britannici vennero sostenuti in questa torbida macchinazione dallo stesso Badoglio, ansioso di far cadere uno dei nostri capisaldi informativi all’estero, in un terreno delicato come il Portogallo, paese neutrale e «porta girevole» situata al crocevia tra i due schieramenti, l’Asse e gli angloamericani, dove si erano giocate alcune delle partite più delicate del conflitto: dai contatti inconfessabili tra Germania e Inghilterra che prepararono il misterioso volo in Scozia del delfino di Hitler, Rudolf Hess, agli stessi negoziati segreti per l’armistizio dell’8 settembre ’43, fino ai transiti di apparecchiature ed esplosivi volti a creare in Italia focolai di resistenza a tedeschi e fascisti, per iniziativa del Soe (Special operations executive), la branca delle operazioni speciali dell’Intelligence Service.  Senza dimenticare che all’Estoril, vicino a Lisbona, si era rifugiato, dalla fine di agosto di quello stesso 1943, l’ex ministro degli Esteri, Dino Grandi, fautore della manovra di palazzo che determinò l’implosione del regime, il 25 luglio. Perché Badoglio si prestò a favorire l’assalto al nostro apparato di spionaggio e controspionaggio in Portogallo, in modo tale da apparire quasi il suggeritore dell’intera operazione? E per quale motivo il maresciallo non ebbe remore nel servire gli obiettivi della Gran Bretagna, al punto da voler addirittura neutralizzare i nostri servizi segreti?  Bisogna subito porre nella dovuta evidenza che un gesto di condiscendenza di questo genere, nei confronti dei britannici, poneva di fatto sotto una luce sinistra il passaggio italiano al campo alleato, privandolo di tutti quei presupposti, quale il rispetto della nostra indipendenza e sovranità nazionali, che avrebbero dovuto sostanziare una collaborazione e una cobelligeranza su basi di reciproca e paritaria dignità. Se è pur vero che noi italiani avevamo forse qualcosa da farci perdonare, nei confronti degli angloamericani, resta tuttavia il fatto che, su queste basi, si passava dal vassallaggio nei confronti dei tedeschi a un altro tipo di assoggettamento, di marca quasi 'coloniale'.   Occorre peraltro ricordare che l’armistizio ebbe una gestazione molto complessa, non priva di punti ancora oscuri. Lo stesso Badoglio, fin dalla primavera del 1942, si era esposto mandando suoi fiduciari in avanscoperta presso gli inglesi per saggiare il terreno in vista di una resa concordata. Il maresciallo aveva allora proposto che il generale Annibale Bergonzoni, sul modello dell’organizzazione France Libre di De Gaulle, rappresentasse all’estero una forza militare favorevole agli Alleati, pronta a combattere al loro fianco. Terminata, il 23 agosto ’43, la missione a Lisbona del generale Giuseppe Ambrosio, latore al tavolo negoziale con gli Alleati delle direttive dello stesso Badoglio per la firma dell’armistizio, nel breve volgere di poche settimane calò l’univoca determinazione degli inglesi volta a smantellare l’organizzazione dei nostri servizi informativi. Una prova di forza sostenuta, in modo clamoroso, dal capo del governo di Roma. In un’articolata relazione, redatta nel 1948, il generale Terragni così ricostruisce lo svolgersi di quegli avvenimenti: «Il 23 settembre 1943 mi fu consegnato a mano dall’addetto militare britannico, venuto nel mio ufficio a trovarmi per la prima volta, un messaggio [in lingua inglese] a me diretto dal generale Ambrosio, capo di stato maggiore generale, nel quale mi si ordinava di lavorare per il futuro in stretta collaborazione con i due Centri locali del Sim [Servizio informazioni militare] e con la rappresentanza diplomatica britannica mediante scambio di informazioni».  A ciò l’ufficiale nulla ebbe a obiettare, alla luce del fatto che si era da poco concluso l’armistizio con gli angloamericani. «Sennonché – continua – , alcuni giorni dopo, e cioè il 4 e 5 ottobre, i due capi Centro [responsabili delle attività di spionaggio e controspionaggio dell’esercito] furono direttamente e separatamente convocati da un funzionario dell’Intelligence Service, certo De Salis, addetto all’ambasciata britannica di Lisbona, e ufficialmente richiesti di comunicare tutti i nomi a rispettiva conoscenza, degli elementi che in qualunque modo fossero stati identificati come al servizio dell’Intelligence Service; di segnalare nominativamente tutti gli informatori, retribuiti o meno, italiani o stranieri, che avevano lavorato per i nostri servizi di informazione e di comunicare tutte le notizie che i capi Centro stessi possedessero in ordine all’attività e all’organizzazione dei servizi di informazione della Germania». Questa richiesta di delazione, che il generale italiano definisce «indegna e inaccettabile », incontrò il netto rifiuto dei responsabili della nostra rete di intelligence presente in Portogallo, non disponibili a una resa che aveva tutto il sapore di un autodafé.  Tale linea di intransigenza morale, dettata anche da doveri di responsabilità nei confronti soprattutto di agenti 'coperti' portoghesi che, se svelati, avrebbero potuto subire misure ritorsive da parte delle loro autorità nazionali, fu condivisa inizialmente dalla totalità dei capi delle varie sezioni informative. Cedere alla protervia inglese, ai loro occhi, non soltanto avrebbe significato abdicare alle consuetudini dell’onore militare, ma anche minare alla radice quel senso di lealtà e di fedeltà alla nazione che deve accompagnare il giuramento di un servitore dello Stato qual è il soldato.  Alla fine di ottobre, a far capitolare uno dei responsabili del nostro apparato di intelligence militare in Portogallo, giunse un telegramma di Badoglio, nel quale ordinava di consegnare al funzionario britannico dell’Ufficio controllo passaporti di Lisbona «i dettagli relativi alla nostra organizzazione informativa, compresi i nomi dei nostri agenti e tutti i metodi di funzionamento sia italiani sia tedeschi a nostra conoscenza». In un successivo ordine scritto, del dicembre ’43, Badoglio imponeva addirittura al capo del presidio offensivo del Sim a Lisbona, il tenente colonnello Gino Clarej, la ricostruzione dei contenuti dei carteggi d’ufficio, di natura operativa e informativa, che erano stati bruciati il giorno stesso dell’armistizio. Non ci sono parole adeguate per qualificare la gravità del comportamento di Badoglio che, in circostanze normali, avrebbe dovuto tradursi nel suo deferimento a una corte marziale. Tale obliqua manovra, così lesiva della nostra dignità di nazione divenuta cobelligerante, fu successivamente deplorata da alcuni ufficiali angloamericani, come gli stessi addetti militari britannico e statunitense a Lisbona, che erano soldati e persone d’onore.  La protervia degli inglesi, e la condiscendenza di Badoglio, produssero un autentico «miracolo»: la conversione, o riconversione, al mussolinismo di un ufficiale monarchico, deluso dai Savoia, come il generale Terragni. Dopo aver chiesto e ottenuto, dagli alti comandi dell’esercito, il suo collocamento a riposo (un clamoroso gesto di protesta che, in tempo di guerra, avrebbe potuto causargli il deferimento al tribunale militare), Terragni venne inaspettatamente rimesso sugli scudi da Mussolini, che ricevette una relazione di fonte germanica sul suo operato, e lo nominò agente della Repubblica sociale italiana nella nazione iberica. Il governo di Lisbona, peraltro, non riconobbe mai ufficialmente la Rsi, né, nell’ultima parte del conflitto, autorizzò alcuna attività di intelligence, da parte italiana, in Portogallo.
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