Nel nostro linguaggio alcune parole sono state confinate dentro gabbie tecniche o settoriali e quando le incontri oggi il rischio è di non saper più riconoscere l’ambito comune di cui partecipano, fino talvolta a rendersi sinonimi. Nell’epoca dei totalitarismi un artista che seguisse il vento di rivoluzione in atto era spinto a pensare il mondo come costruzione della «totalità». Nell’epoca attuale, dove per dire la funzionalità di una realtà organizzata si parla di «sistema», attribuendo una forte connotazione tecnocratica al discorso, la parola «architettura», vuoi perché nel secolo scorso le è stata impressa una forte carica ideologica, vuoi perché, dopo la sbornia ideologica, ha prevalso il funzionalismo economico che scommette tutto sull’appariscenza, il gigantismo, la demonizzata e demonizzabile «spettacolarità» delle archistar, «architettura» diventa vocabolo privo di senso della «totalità» e si riduce alla creazione di birilli pantagruelici che servono a stupire con una grandeur che ha molto a che fare con la potenza, la muscolarità, l’ostentazione, non certo con la misura che sempre detta la durata storica dei fenomeni artistici. E misura non vuol dire solo classicismo, bensì rapporto con l’uomo, con la statura umana.Le due mostre che il Mart ha concertato con intelligente senso delle affinità elettive tra il russo El Lissitzky e l’italiano Mario Radice (cataloghi Electa), esprimono, proprio in ragione della collocazione storica dei due protagonisti nella prima metà del Novecento, il senso comune di quelle due parole: all’«esperienza della totalità» di El Lissitzky corrisponde, infatti, «architettura, numero, colore» nel sottotitolo di Radice. Siamo, più o meno, in un ambito che accoglie e sviluppa alcune qualità «compositive» dell’astrattismo; naturalmente con una diversità di «ethos» e di storia (e una differenza generazionale di 8 anni che gioca la sua parte, ma non è troppo rilevante: Lissitzky era del 1890 e Radice del 1898), e con un sottocutaneo inalienabile imprinting «figurativo» che sarà vitale per entrambi gli artisti.Se volessimo semplificare molto la questione, potremmo dire che tanto in Radice quanto in Lissitzky, la «costruzione» astratta è un modo di pensare il mondo. È architettura, e il senso della totalità, solitamente inteso con un timbro metafisico, in Lissitzky diventa il correlativo oggettivo dell’epopea del prolet che crea una nuova società a partire dalla celebrazione e dalla critica del suo stesso immaginario, di cui l’artista intende farsi propulsore, creatore e, infine, collettore col potere e con la sua retorica populista (all’epoca il populismo non era quello spauracchio che è oggi, qualcuno anzi lo usava in modo antifrastico, come in alcuni fotomontaggi di Lissitzky, fino al «caricaturale» bacio sulla bocca tra il soldato sovietico e un rappresentante del popolo come copertina della rivista «URSS in costruzione»); ma quella «totalità» da epopea che rende l’artista organico al potere per portare al settimo cielo una speranza collettiva – poi, come sappiamo, finita in tragedia (e già allora si poteva, volendo, averne coscienza) –, diventa epica sotto forma di immagine fotografica e propagandistica, e ritrova lo sguardo metafisico e lirico soltanto nel distillato purissimo di linee e piani cromatici che Lissitzky pensa come vere architetture ideali.Si deve ricordare, a proposito della colpa che gli venne imputata, ovvero di essere un designer di Stato anche quando ormai lo stalinismo aveva mostrato il suo volto vero – Lissitzky aveva cominciato da grafico di libri e riviste in yiddish (ed è noto che nell’Urss esisteva una persecuzione ebraica non meno feroce di quella nazista) –, che la sua fedeltà al sogno sovietico anche dopo la fine precipitosa delle avanguardie russe, non fu mai pedissequa alla tronfia retorica. Un paio d’anni fa il Palazzo delle Esposizioni di Roma ci mostrò, con una memorabile rassegna di pittori dell’epoca sovietica, che quegli artisti erano tutt’altro che cani, non erano in maggioranza realisti accademici, sapevano dipingere da veri maestri e parlavano una lingua che si è dipanata anche in Italia sotto il fascismo (meno in Germania, forse anche per le modeste fondamenta culturali del Führer), attorno alla categoria del «monumento». Non basta essere retorici per cogliere l’essenza del monumento; esso, a suo modo, fa memoria di qualcosa che è in comune con chi in quel monumento deve riconoscersi. Naturalmente, il monumento, quando è nelle mani di grandi artisti, diventa un’arma a doppio taglio, perché può essere persuasivo e mettere l’artista nella parte dell’«utile idiota» a chi dietro quell’immagine si cela vendendo menzogne o peggio. Ma di per sé, il monumento quando parla all’uomo cerca di intercettarne i sentimenti, le aspirazioni, gli ideali. E questo non vale una condanna preventiva. Oggi, per esempio, ci sono sempre meno monumenti e moltissimo monumentalismo, quello del denaro guadagnato nelle tante forme lecite e illecite da chi poi, attraverso l’immagine, cerca di abbindolare la coscienza critica della gente, la quale più che riconoscersi in qualcosa, di fronte a certe operazioni di marketing reagisce come se vivesse perennemente in un lunapark.Anche Radice collaborò col fascista Terragni (la cui adesione al regime non sminuisce in niente il suo genio architettonico “estraneo” a ogni retorica propagandistica), collaborò con Cattaneo realizzando quella che è una delle più belle fontane del Novecento, esposta nel Parco Sempione di Milano per la Triennale del 1936; anche Radice veniva dal figurativo, e la figura torna periodicamente a farsi largo fra le quinte astratte della sua pittura, come in certe opere tarde, anni 60, che la critica tende a ridimensionare ponendo l’apice della pittura di Radice nella prima metà del secolo. Se si osservano attentamente i dipinti degli anni 30, quelli dove il sodalizio con Terragni e Cattaneo si avvia e si sviluppa in varie opere, è subito evidente che si tratta di planimetrie di città, di mondi, di quartieri ideali, che poi avranno anche delle declinazioni propriamente architettoniche; anche Le Corbusier aveva fatto qualcosa di analogo con la sua pittura e scultura purista, ed ebbe rispetto a Radice la volontà di librarsi verso la sintesi maggiore, quella dell’architettura vera e propria (che non dimentica mai il suo conio dalle altre due arti sorelle). Radice, in ogni caso, è poco interessato alla questione dell’arte politica e la sua è una prospettiva lirica, sulla scorta della poetica "fredda" del Kn di Carlo Belli. Ma questa liricità, e la fuga dalla figurazione, sono in qualche modo anche una risposta alla questione politica dell’arte sotto il fascismo.Ciò che accomuna Lissitzky e Radice è l’idea che da un gesto di «impaginazione» nascerà un mondo nuovo; questo è certamente più vero per il russo; ma lo è anche per Radice, vedi certi schizzi da taccuino o alcuni disegni esplicitamente architettonici, dove «mettere in pagina» viene parafrasato dando ordine a ciò che, nella sua organica anarchia, elude la regola, il numero, il colore che rivela la misura aurea.
Rovereto, MartEl Lissitzky – Mario RadiceFino all’8 giugno