sabato 26 maggio 2018
Il Museo della Memoria al Vescovado ricorda i trecento ebrei scampati alla Shoah. Documenti inediti e testimonianze confermano l’immensa portata dell’operazione umanitaria
Le sorelle ebree Mira, Hella e Lea Baruch

Le sorelle ebree Mira, Hella e Lea Baruch

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«Chi salva una vita salva il mondo intero», ha lasciato detto l’ebreo superstite dell’Olocausto, Itzhak Stern. E allora nel “borgo santo” di Assisi, dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943 fino al 16 giugno del ’44 (giorno in cui le truppe tedesche abbandonarono la cittadina umbra) quasi ogni singolo cittadino dei circa 4mila abitanti accolse altrettanti tra sfollati e perseguitati dal feroce braccaggio nazifascista. La storia della città di san Francesco, in quanto città dei “salvati”, per primo l’ha raccontata in Assisi underground - libro e film omonimo realizzato del 1978 - il regista bielorusso Alexander Ramati. Pellicola dedicata alla memoria dei 300 ebrei che trovarono rifugio nei conventi e le residenze private assisane, e ai loro nobili e generosi salvatori. E mentre nessuno ricorda più che in quel film la parte di una suora (sorella Beata) era stata affidata alla nipote del Duce, l’allora giovanissima Alessandra Mussolini, la maggior parte dei telespettatori ha bene in mente i quattro protagonisti di questa tragica eppure straordinaria storia pregna di umanità: padre Rufino Niccacci (interpretato da Ben Cross), l’allora vescovo di Assisi Giuseppe Placido Nicolini ( James Mason) madre Giuseppina Biviglia (Irene Papas) e il colonnello tedesco Valentin Müller (Maximilian Schell). A questi, si aggiungono le figure altrettanto salvifiche di don Aldo Brunacci, il parroco di Perugia don Federico Vincenti, i tipografi, padre e figlio, Luigi e Trento Brizi e la suora stimmatina Ermella Brandi. Tranne il colonnello Müller, che in questa storia ha avuto comunque un ruolo decisivo, gli altri sono stati riconosciuti “Giusti tra le nazioni” nello Yad Vashem di Gerusalemme. «L’altro giusto che ad Assisi ha operato fattivamente, a rischio della propria vita, è stato il grande campione di ciclismo Gino Bartali», puntualizza Marina Rosati, responsabile e ideatrice del “Museo della Memoria. Assisi 19431944” che ha appena aperto i battenti nel nuovo spazio del Vescovado (allestimento realizzato dall’Opera Casa Papa Giovanni, a cura delle Grafiche Marini e della Guidobaldi di Foligno), su espressa volontà dell’arcivescovo Domenico Sorrentino.

In questo palazzo vescovile in cui avvenne la spogliazione di san Francesco, è un luogo assai caro agli ebrei che scamparono alla Shoah. Qui nel settembre del ’43 monsignor Nicolini aprì le porte agli ebrei e i rifugiati politici, «ospitando contemporaneamente fino a cinquanta persone, con le quali divise tutto ciò che aveva», scrive Annabella Donà nel catalogo della mostra permanente. All’ingresso del Museo, il “benvenuto” al pellegrino lo dà la magnifica macchina Felix, usata dai tipografi Brizi per falsificare i documenti degli ebrei. Grazie all’elenco telefonico di Roma e con una serie di pseudonimi («per lo più meridionali o aggiustamenti dei cognomi: tipo i Viterbi che divennero la famiglia Vitelli») i Brizi permisero agli ebrei di ottenere le tessere annonarie con cui poterono sfamarsi. Nella sala video riscalda il cuore la voce del “genius loci” don Aldo Brunacci. È il racconto tratto dal docufilm in cui il canonico della cattedrale di San Rufino, allora segretario del Comitato per l’Assistenza ai Rifugiati, ricorda gli episodi salienti del “salvataggio”. Padre Niccacci, infaticabile dall’alba al tramonto recapitava dispacci da una casa e un monastero all’altro di Assisi. La “Rete” aveva il suo quartier generale presso il monastero di San Quirico, in cui i primi ebrei, accolti da madre Biviglia e le sue sorelle che ruppero eccezionalmente la plurisecolare clausura, furono «un uomo francese di origine polacca, sua moglie e i loro figli. Erano scappati da un campo di concentramento in Francia e avevano passate le Alpi a piedi».

Viaggi di fortuna, sono quelli narrati dalle lettere, i documenti e le foto inedite di questo piccolo ma emozionante scrigno della Memoria dove stanno giungendo visitatori da ogni parte del mondo e di ogni credo religioso. Gioia Bartali, nipote del “Ginettaccio”, si inginocchia e recita la preghiera di ringraziamento del nonno (per la vittoria del Giro del ’37) a Santa Teresina di Lisieux nella cappellina di famiglia che è stata appena donata al Museo. Testimonianze struggenti, come quelle di Mira, Hella e Lea Baruch (la foto tenerissima di loro tre bambine campeggia in una delle sale) arrivate con i loro genitori da Fiume e nascoste nella foresteria del Monastero di Santa Croce. «Le suore ci davano ogni mattina una zuppa di pane molto buona. Mira e Hella portavano il pranzo da un altro convento», racconta Lea Baruch. A Santa Croce, nella camera 13, nel ’44 venne alla luce Francesco Clerici, figlio del rifugiato politico Angelo e di sua moglie Luisa che avevano già un bimbo di due anni, Giuseppe. Il piccolo Francesco quel Natale impersonò Gesù Bambino nel presepe vivente del convento delle suore tedesche. Dalle madri francesi del Monastero di Santa Colette («la più rigida clausura di Assisi») entrarono le famiglie ebree dei Corinaldi di Milano, i Majonica di Trieste. Lì ripararono dal Belgio anche gli ebrei Fintzi, padre e madre e la piccola Brigitte di due anni che al Monastero vide nascere il fratellino Enrico Maria.

«E il fatto curioso, è che la cartolina di precetto al servizio militare di Enrico Maria Fintzi arrivò alle suore, nel 1964 quando ormai da vent’anni era tornato in Belgio con i suoi cari», racconta divertita Marina Rosati. I Fintzi, come tutti gli ebrei celati anche nei sotterranei assisiati tornarono sani e salvi alle loro case e per questo nel 2004 l’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha insignito la città del Poverello della Medaglia d’oro al Merito Civile. Gli unici “sommersi” qui sono stati i pochi deceduti per morte naturale. È il caso della signora Clara Weiss, ebrea di origine austriaca che si spense a San Quirico e fu sepolta sotto mentite spoglie nel cimitero di Assisi «in un loculo acquistato a proprio nome da don Brunacci», sottolinea la Donà. A guerra finita, il figlio della signora Weiss ha posto fine alla farsa del falso nome (Bianca Bianchi) tornando ad Assisi per onorare la memoria della madre con una tomba sulla quale è scolpita la stella di Davide.

Sulla lapide del colonnello Mül-ler, nel cimitero di Eichstätt (Baviera) è raffigurata la Basilica di San Francesco, in cui ogni mattina, da «cattolico fervente» si recava per la Santa Messa. Müller, con il supporto della Chiesa locale, fece in modo che Assisi venisse riconosciuta “Città Ospedaliera”, salvandola dai bombardamenti e salvando la vita anche ai civili, ai quali prestò le sue cure in qualità di apprezzato medico già in Germania. «Le figure del colonnello Müller e quella del podestà Arnaldo Fortini (dopo la guerra fu un ottimo sindaco e un fine intellettuale, presidente della Società Internazionale degli Studi Francescani) sono state fondamentali per l’esito dell’operazione “Assisi undeground”», dice Marina Rosati accompagnandoci all’uscita. Sulla via del ritorno, resta impressa nella memoria la foto di Lea Baruch e le sue sorelle, e quel pensiero nostalgico dell’addio ad Assisi nel gennaio del 1945, quando partirono alla volta di Gerusalemme: «Ero eccitata per la partenza – scrive Lea – ma allo stesso tempo triste, perché stavo lasciando tutte le persone che ci avevano aiutato a sfuggire a un destino tanto terribile».

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