giovedì 9 luglio 2009
Una riflessione della scrittrice indiana sul genocidio che la Turchia si ostina a non riconoscere: «La memoria non va negata»
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Non ho mai conosciuto di persona Hrant Dink, pur­troppo, e questa lacuna mi rimarrà per sempre. Da quel che so di lui e di ciò che scriveva, diceva e faceva, del modo in cui viveva la sua vita, so che se mi fossi trovata a Istanbul sarei stata tra le centomila persone che hanno accompagnato la sua bara in silenzio assoluto per le vie gelate della città, reggendo cartelli con la scritta «Siamo tutti armeni» o «Siamo tutti Hrant Dink». Forse io ne avrei portato u­no con scritto «Un milione e mez­zo + uno». Mi chiedo che pensieri mi sareb­bero passati per la testa cammi­nando accanto alla bara di Hrant Dink. Forse avrei risentito la voce di Araxie Barsamian, madre del mio amico David Barsamian, men­tre raccontava la storia sua e della sua famiglia. Nel 1915 Araxie aveva dieci anni. Si ricordava degli sciami di cavallette che avevano invaso il suo villaggio, Dubne, a nord della storica città di Dikranagert, l’odier­na Diyarbakir. Gli anziani del vil­laggio ne erano allarmati, raccon­tava Araxie, perché se lo sentivano nelle ossa: le cavallette erano catti­vo segno. E avevano ragione. La fi­ne sarebbe giunta di lì a pochi me­si, con il grano pronto per il raccol­to nei campi. «Quando ce ne andammo, la mia famiglia contava venticinque per­sone in tutto» diceva Araxie Barsa­mian. «Si presero tutti gli uomini. Chiesero a mio padre: 'Dove tieni le munizioni?' E lui rispose: 'Le ho vendute'. Allora gli dissero: 'Va’ a riprenderle'. Mio padre andò a ri­prendersele, nella città curda, e lì lo riempirono di botte e gli porta­rono via anche i vestiti. Quando tornò a casa – me l’aveva racconta­to mia madre – quando tornò, nu­do come un verme, finì in prigione. Gli tagliarono le braccia ... e morì in prigione. Poi portarono tutti gli uomini nei campi, legarono loro le mani e spararono. Li uccisero tut­ti ». Araxie, sua madre e i tre fratelli mi­nori furono deportati. Morirono tutti tranne lei. L’unica sopravvis­suta. Questa è una singola testimo­nianza di un avvenimento storico negato dal governo turco e anche da molti cittadini turchi. Il giorno del mio arrivo a Istanbul, ho girato per le strade della città per ore e ore, e mentre mi guarda­vo in giro, invidiosa della gente di I­stanbul che vive in una città così bella, misteriosa e ricca di emozioni, un a­mico mi ha indica­to dei ragazzi con uno zucchetto bianco in testa, ap­parsi d’improvviso come un’eruzione cutanea, in tutta la città. Mi ha spiegato che manifestavano soli­darietà al giovanissimo assassino di Hrant, che indossava uno zuc­chetto bianco simile, al momento del delitto.Era evidente che l’omi­cidio doveva servire sia come puni­zione per Hrant, sia per lanciare un avvertimento a chi in questo paese poteva prendere l’esempio dal suo coraggio e non solo dire l’indicibi­le, ma pensare l’impensabile. Era questo il messaggio scritto sul­la pallottola che ha ucciso Hrant Dink. Ed è questo il messaggio contenuto nelle minacce di morte ricevute da Orhan Pamuk, Elif Sha­fak e altri che hanno osato profes­sarsi in disaccordo con la posizio­ne del governo turco. Prima di es­sere ucciso, Hrant Dink era stato processato per tre volte in base all’articolo 301 del codice penale turco, secondo il quale la denigra­zione pubblica dell’«identità turca» è un reato penale. Ognuno di que­sti processi era una strizzata d’oc­chio da parte dello Stato turco alla destra fascista del paese: Hrant Dink, si sottintendeva, era un ber­saglio lecito. Come si può denigra­re l’identità turca dicendo la verità? E chi ha il diritto di stabilire defini­zione e confini di quell’identità? Hrant Dink è stato ridotto al silen­zio. Ma chi esulta per la sua morte dovrebbe sapere che è stato un at­to controproducente. Invece di mettere a tacere la cosa, ha creato un gran trambusto. La voce di H­rant è diventata un urlo che non potrà essere messo a tacere mai più, né dalle pallottole, né dall’in­carcerazione, né dagli insulti. È una voce che grida, sussurra, canta, rompe il silenzio prepoten­te, che ha ricominciato a serrare le fila come un esercito sbandato in via di riorganizzazione. Ha suscita­to la curiosità del mondo intero per una cosa accaduta in Anatolia più di novant’anni fa. Una cosa che i nemici di Hrant vogliono insab­biare. Dimenticare. Be’... per quan­to mi riguarda, la mia prima rea­zione è stata cercare di scoprire il più possibile riguardo agli eventi del 1915, leggere i libri di storia, a­scoltare le testimonianze. Cose che magari, altrimenti, non avrei mai fatto. La battaglia contro i ragazzi con lo zucchetto di Istanbul e della Tur­chia intera non è la mia battaglia, è la vostra. Io ho le mie battaglie da com­battere, nel mio paese, contro altra gente che indossa altri copricapi e brandisce torce. In un certo senso non sono battaglie mol­to diverse. Su un punto fondamen­tale, però, differi­scono. Mentre in Turchia si tace, in India si festeggia; e non so davvero co­sa sia peggio. Il silenzio, mi azzardo a dire, fa pensare alla vergogna, e la vergogna presuppone una coscien­za. È un’interpretazione troppo in­genua e generosa? Forse, ma per­ché non provare a essere ingenui e generosi? I festeggiamenti, pur­troppo, non si prestano all’inter­pretazione. Sono ciò che dicono di essere.
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