giovedì 12 agosto 2010
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In tutti i manuali di storia dell’arte contemporanea si trova una composizione fotografica molto contrastata, che mostra un paesaggio innevato, tagliato da un fiumiciattolo, e solcato da cerchi concentrici, chiaramente artificiali e realizzati da mano umana, che attraversano quel confine naturale: è Annual Rings («Anelli annuali»), un’opera del 1968 di Dennis Oppenheim. Quel fiumiciattolo segna il confine tra Usa e Canada, e l’artista con la sua azione ha voluto ricordare il rapporto esistente tra natura – gli anelli che crescono, come quelli degli alberi, da cui il titolo… – e storia (un fiume insignificante che significa un confine tra due nazioni): la natura è indifferente alla storia, cioè all’uomo, e il suo tempo è un tempo «altro». Da allora Oppenheim è stato riconosciuto come uno dei maestri della Land Art («arte del territorio»), pur avendo nella sua lunga carriera affrontato modi e soggetti anche molto diversi. L’artista americano ha un rapporto privilegiato con l’Italia, dove è molto conosciuto e dove ha esposto e espone con costanza. A lui abbiamo rivolto alcune domande sulla sua fase «eroica» – gli anni Sessanta/Settanta – e sul suo modo di essere artista.Oppenheim, quanto deve la sua arte all’atmosfera di contestazione, di ribellione, di «Flower Power», di cosiddetta «liberazione sessuale» degli anni Sessanta? E quanto rimane di essa nel suo lavoro, e nel lavoro artistico in genere?  «Un sacco di critici ritiene che la Land Art e gli artisti che l’hanno sviluppata fossero influenzati dai tempi in cui agivano, vale a dire i tardi anni Sessanta. Essi erano particolarmente eloquenti rispetto ad avvenimenti come la guerra del Vietnam che paragonavano all’aggressività di certa Earth Art (sinonimo di Land Art, usato specialmente negli Usa, ndr), che a sua volta spesso implicava uno scompiglio piuttosto violento della terra stessa. Dicevano cose simili anche rispetto alla Body Art (l’arte del corpo e della performance sul corpo, ndr), per cui ciò che si nascondeva dietro di essa sarebbero stati i tempi della ribellione, della contestazione studentesca, degli attriti tra le giovani generazioni degli anni Sessanta e il continuo stato di guerra in Asia. Io ho sempre affermato che ero conscio che il mondo stava cambiando velocemente attorno a me, e che probabilmente questo ha accelerato la velocità di ogni mia attenzione. Ma sono altrettanto cosciente che gli artisti sono esperti nello staccarsi da ogni stimolo esterno. Sono esperti nell’annullare le "frequenze" che ritengono distraenti e nel mettere al loro posto l’acuto e penetrante perseguimento di una teoria e delle più profonde strutture richieste per realizzare un’opera d’arte riuscita. Sia l’Earth Art che la Body Art hanno agito in questo modo. Le esplosioni occorse nel mondo di fuori hanno portato piccoli effetti nel mio tentativo di andare sempre più a fondo nei miei assunti teorici».Le domande tipiche degli anni Settanta sono: perché l’oggetto è stato svilito in favore del concetto? Oppure: perché è stata considerata come opera d’arte l’azione, il processo, piuttosto che l’oggetto, o ciò che rimaneva dell’azione? Perché l’arte stava agendo di più nella realtà del mondo – come la «Land Art» – piuttosto che nel mondo dell’arte? Perché l’arte stava cercando di «smaterializzarsi» rendendo così estremamente problematico per se stessa il rapporto col museo e con la galleria? Lei cosa risponde?«L’arte negli anni Settanta, attraverso il sistema dell’installazione, ha cominciato a focalizzare l’attenzione sul perché gli artisti fanno arte. Le installazioni stesse erano personali interrogazioni quasi scientifiche, cliniche, nella loro assoluta e pura ricerca di risposte a queste domande. Per questa arte, il processo del fare arte era una riflessione verso l’interno di se stessi; gli artisti usavano l’arte per indagare la mistica dell’arte. Spesso i lavori non erano così riusciti perché il lavoro era così concentrato nell’indagare queste profondità che gli artisti fallivano nella chiara costruzione dell’opera, lasciando invece scorrere liberamente la cinepresa o la videocamera (strumenti privilegiati della nuova arte, ndr) sulla loro ricerca spesso dolorosa di quell’impulso».Agli inizi del suo lavoro sembra che la sua attenzione sia focalizzata sulla definizione di un comportamento elementare, identificato da atteggiamenti altrettanto elementari, che riguardano il corpo e le sue azioni naturali. Poi, a partire dal 1985, pare che il suo immaginario sia diventato più fantastico e ironico, ma anche più lontano dalla nuda realtà. Pensa che questo mutamento adombri un atteggiamento politico, o semplicemente sia una particolare attitudine al cambiamento d’interessi?«Ogni artista vede di fronte a sé il suo proprio particolare percorso, e quando comincia a percorrerlo scopre che razza di artista è. Per esempio, io ho scoperto che non avevo l’attitudine a ripetere troppe volte un’idea, un desiderio, o un metodo. Invece mi sento invogliato a "deragliare" spesso, qualche volta nel mezzo di un’idea o di un processo che abbia una lunga vita di fronte. Questa mia peculiarità è contemporaneamente una maledizione e una benedizione: il desiderio di non ripetermi troppo spesso magari mi spinge da un "filone" ricco verso uno meno significativo. Spesso non è come dovrebbe essere, dove uno alza la posta ad ogni giro, chiarendo e articolando sempre più un territorio man mano che si avanza. Qualche volta questi sconvolgimenti di cui parlo avvengono per il gusto di farlo, o per loro interna necessità, e non mi portano necessariamente in un’orbita più alta. Ma certo mi portano lontano dalla ridondanza e dall’autocompiacimento, dalla stasi e dalla cieca fedeltà a se stessi: è l’adesione al movimento, all’instabilità, alla continua convinzione che il lavoro ideale, perfetto, non può mai essere trovato».È possibile riuscire a sfuggire alle convenzioni sociali, che sono anche il risultato della naturale attitudine dell’uomo come «essere sociale»?«La maggioranza degli artisti, per loro natura, sono antisociali».
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