giovedì 13 febbraio 2020
Non si sensibilizza a una estetica più "alta" a colpi di delegittimazioni: è una crescita umana e richiede pazienza. Imporre forme complesse a chi non le capisce può essere peccato di orgoglio
Un'immagine popolare del Sacro Cuore di Gesù

Un'immagine popolare del Sacro Cuore di Gesù - Makamuki0 - Pixabay

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Il sacro è terreno di mietitura per una quantità di figure così eterogenee che non è possibile classificarle per gruppi. Certo, la devastazione provocata da un artigianato di valore artistico oggettivamente prossimo allo zero è notevole. Una devastazione visiva e di contenuto. D’altra parte però, l’incontro con sensibilità differenti e più evolute dal punto di vista dell’arte “codificata”', ma che della differenza hanno fatto una rocca inespugnabile e incomunicabile costruita su un senso di superiorità autoreferenziale e ripiegato su se stesso, mi ha causato una reazione inaspettata.

Ci sono interventi nell’ambito degli edifici sacri che gridano vendetta da un punto di vista artistico ed estetico, per non entrare in quello liturgico che compete agli esperti del settore. Eppure la chiusura di alcuni al dialogo, difficile ma necessario, con queste realtà – artigianali più che artistiche – è talmente carica di ostilità che mi ha spinto a guardare con un occhio diverso le cose. E di questo ringrazio.

Se esiste anche un solo committente che permette e sposa una tesi realizzativa, questa, per quanto discutibile e inconsistente, ha legittimità di esistere. In particolare nell’ambito in cui le forme sono punto di raccordo per la sensibilità della gente che vi si raduna intorno. L’accettazione della complessità e della diversità è condizione per dirsi artisti e per dirsi persone di fede, o forse, semplicemente, per dirsi membri di una comunità.

Per quanto la si pensi diversamente, nessuno, in alcun ambito, è autorizzato a teorizzare una "euestetica". Neanche nell’ambito del contemporaneo laico. A maggior ragione nell’ambito dell’arte che entra in dialogo con luoghi sacri e liturgie. Uso la perifrasi in maniera ponderata dal momento che non sopporto l’idea di un ghetto dell’arte sacra. Esiste un’arte che entra nel luogo sacro e stabilisce un contatto con le liturgie di quella sacralità. Ciò che caratterizza il dialogo, per chi lo cerca, è il rispetto. E, sebbene sembri una concessione per certe realizzazioni, non si può discutere del fatto che il rispetto è dovuto a chiunque. Per assurdo se una comunità, o una diocesi, ritenessero che forme più degne di una fiera dell’artigianato siano manifestazione della propria relazione con il sacro, è un fatto che non si può derubricare a “misfatto” visivo e simbolico. È un fatto. Ha una sua dignità umana e semmai non una dignità estetica. Ma esiste, e ha un suo diritto di esistere.

Il lavoro della sensibilizzazione ad una estetica più evoluta non si fa a colpi di pregiudizi e delegittimazioni: è un lavoro di crescita umana e richiede pazienza e tempo. Diversamente l’istinto di imporre forme evolute a chi non le capisce può facilmente diventare peccato di orgoglio e superbia. Nessuno nell’arte e nel sacro ha l’abilitazione a stabilire una regola fissa e immutabile. Già questa è una dimostrazione di un limite pari a chi realizza altari che somigliano per tensione mistica ai tavoli di una birreria o a qualche diavoleria da fiera del design di terz'ordine.

La questione estetico-simbolica non può diventare ideologica. E ti accorgi che oltrepassa questo limite quando veicola chiusura e negazione di quell’alterità che, pur limitata, va spontaneamente verso ciò che comprende avendone tutto il diritto anche se non ci piace. Questo significa alimentare un clima surreale, in cui teorizzare arte significa ritagliarsi una palestra per le proprie velleità personali. Lo scopo è molto più importante di qualsiasi intuizione personale. Si può contribuire ma non si deve chiudere. Si deve cercare di comprendere, e riconosco che in certi casi è molto difficile, eventualmente cercare di convincere. Ma non si deve né si può imporre.

In qualche modo la questione della relazione dei simboli col sacro e dei relativi equilibri estetici è come la livella di Totò. Azzera le gerarchie e riparte da una uguaglianza sorprendente: la autonomia del rapporto di ogni singola identità con il sacro. Questo non vuol dire che azzera le differenze di qualità. Ma azzera certamente il delta tra qualità e intensità della relazione col mistico. E smaschera le intenzioni che non sono rivolte alla crescita umana e della comunità, ma alla autoaffermazione di una superiorità spesso indice di insicurezza interiore e di una sostanziale anche se dissimulata, incuranza verso l’altro, senza cui non solo non vi è Chiesa, non vi è sacro, ma non vi è nemmeno comunità umana.

L’altro è comunque ricchezza, lo si dice con riserbo timoroso un po’ ipocrita, ma spesso di fronte al proprio piccolo recinto di convinzioni, non lo si crede. Così facendo si intraprende un viaggio verso il groviglio egotico che si avvita inevitabilmente su se stesso, rendendo infeconda ogni intuizione. Per mia formazione reputo fondamentale la libertà, che mi ha permesso di esistere e di fare e lottare per ciò che faccio. Libertà e responsabilità, ma anche rispetto incondizionato. Chi vorrebbe limitarne la espressione in nome di un feticcio estetico che per sua natura è dinamico e mutevole si pone inevitabilmente dalla parte di chi questa libertà e questo rispetto in fondo non li ama.

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