sabato 3 agosto 2019
La nostra necessità tommasea di toccare le cose ci impedisce di cogliere la parola nella sua purezza di processo
(Willi Heidelbach / Pixabay)

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Recentemente, osservando alcune opere sulla parola-scultura, alcuni di grande qualità concettuale, altri puro esercizio accademico, ho riflettuto su come immaginiamo l’interscambio tra la parola e ciò che significa. La parola resa scultura rimane se stessa? E dal momento in cui rendo la parola una scultura (ossia una forma nello spazio) non la tolgo forse dal suo campo di azione eliminandola per far posto a qualcos’altro? La parola è motore.

Le mie opere che si riferiscono alla parola attengono soprattutto della sua imprendibilità. Un processo che può funzionare come struttura ma anche come trigger della struttura. Certamente la parola è concreta. Per quanto si voglia continuare a usare il termine concettuale, questo ormai è diventato solo una convenzione per intendere concretezze di tipo diverso. In sé la sfera del concettuale, prima e oltre l’oggetto, secondo l’intenzione di Kosuth, non esiste. La parola è concreta, ma in una sua peculiare dimensione di concretezza.

La metonimia impropria tra parola ed oggetto tangibile non funziona. Può generare un processo divertente tentando di cortocircuitare logica e percezione. Ma in sé la parola non è in alcun modo l’oggetto inteso come forma tangibile. Non è neanche la percezione dell’oggetto. E rischia di non essere nemmeno la descrizione dell’oggetto. La parola vive di una vita propria che noi mettiamo in relazione con la concretezza più grossolana per mera convenzione linguistica che non riguarda in alcun modo l’essenza. La parola inerisce all’oggetto per necessità di comunicazione, può accarezzarne le proprietà, ma non ha alcuna reale vicinanza con esso. La rappresentazione della parola, la sua estensione plastica, se ne distacca in modo irrimediabile.

Quindi la parola è un oggetto autonomo per categoria e forma? Sì e no. In quanto riprodotta la parola attiene a differenti categorie della oggettualità. Se resa come una scultura è differente da quando viene stampata. Ma in entrambi i casi le due concretizzazioni appartengono a un piano sostanziale completamente differente da quello della parola pura. Il processo. Estremizzando si potrebbe dire che la stessa rappresentazione mentale che noi inevitabilmente facciamo della parola ci porta su un piano di significato differente da quello della parola agita e non rappresentata. Probabilmente la nostra necessità un po’ tommasea di toccare le cose in modo superficiale, ci impedisce di cogliere la parola nella sua purezza di processo che possiamo solo immaginare quando ne diventiamo coscienti.

Quella dimensione è per noi utopia, ma questo non significa che non esista. È essenziale averne contezza per non fermarci a livelli di significato primordiali, superficiali, che ci impediscono, con il loro meccanismo di zavorra, la tensione verso altre fasi del significato.

La storia del Golem di Praga è una dichiarazione interessante da questo punto di vista. L’argilla antropomorfa riceveva la vita dal rabbino Judah Loew ben Bezalel solo attraverso la parola che diventava la cifra del soffio vitale concesso o negato. La parola veniva scritta sull’argilla o sulla tavoletta ma il suo potente effetto scaturiva dall’esercizio del suo processo, non dalla sua rappresentazione.

Questo è interessante, al di là della speculazione logica, per la espansione del concetto alle altre aree di linguaggio. Quello pittorico o musicale ad esempio. La confusione tra la scrittura e il processo della scrittura di uno spartito o un quadro cristallizza il significato che si sclerotizza e impedisce ulteriori approfondimenti dando origine a una crosta impenetrabile di superficie.

Se entriamo nel campo etico la questione diventa fondamentale. Ancor più in ambito religioso. La Parola cui ci si riferisce viene tirata da tutte le parti, e in ognuna di queste viene resa oggetto, cosa visibile, rappresentazione. In termini generali questo è il primo passo per snaturare la sua natura, di per sé misteriosa, che ha a che fare con la dinamica del processo più che con la fissità della regola. Le conseguenze sono di varia natura, ma credo che la più nefasta sia il proliferare di parole feticcio che ognuno gestisce come specchio delle proprie velleità, ambizioni, significati personalistici, come un selfie morale, per mostrare di essere portatori privilegiati di verità esclusive. La Parola anticipa e segue l’essenza di ognuno, e lo fa in maniera discreta e inesorabile, secondo un disegno imprendibile di cui ci si può esclusivamente fidare, per quante siano le forme in cui cerchiamo, inutilmente, di fissarla.

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