mercoledì 2 ottobre 2019
Esistono momenti in cui l’arte contemporanea ha provato a rimettersi a servizio della liturgia con una qualità all’altezza, ma rimangono eccezioni in una generalizzata “trasandatezza devota"
Il "Buon pastore". Catacombe di Priscilla (seconda metà del III secolo)

Il "Buon pastore". Catacombe di Priscilla (seconda metà del III secolo)

COMMENTA E CONDIVIDI

Sono almeno due secoli che fra una cultura artistica alta e le cose di Chiesa non esiste più una reale frequentazione, che non sia episodica e marginale ma organica e strutturata. Quella antica alleanza cui abbiamo dato il nome anche alquanto mitizzato di “arte sacra” non esiste più perché è scomparso il mondo che la giustificava con le sue narrazioni, le sue istituzioni, i suoi ruoli sociali e le sue funzioni antropologiche. Qualsiasi cosa sia diventato quello che noi continuiamo a definire col termine “arte” ha profondamente cambiato i suoi paradigmi di fondo, i suoi linguaggi, le sue antropologie, i suoi metodi, le sue finzioni. Non trarne il beneficio di conseguenti implicazioni significa fluttuare continuamente dentro immaginazioni che non corrispondono alla realtà. Molti discorsi del mondo credente si esprimono sulle questioni estetiche come se la Chiesa fosse ancora il grande naturale committente che può aspettarsi dalle arti, con immutata autorevolezza, quello che pensa di avere loro chiesto per secoli, giudicando sbandamenti le loro evoluzioni di paradigma e ignorando persino le mutazioni profonde che hanno riguardato gli stessi bisogni stessi di un cattolicesimo profondamente cambiato. È una questione che, ad esempio, investe il rapporto fra immagine sacra e fondamento della parola, che nel cristianesimo significa Rivelazione e Scrittura.

Nella primissima antichità cristiana l’affermazione delle immagini era molto limitata dal primato della Scrittura. Perché cercare un legame col Signore nella superficialità dell’immagine quando si ha a disposizione la profondità del Vangelo? La storia ha poi fatto evolvere questo rapporto, fino alla nostra stagione tridentina in cui le immagini sono andate a servizio di un racconto anche molto controllato della storia sacra. Ecco, della storia sacra più che della parola biblica. Quella era anche una stagione in cui nel cattolicesimo l’approccio alla scrittura era molto dominato da preoccupazioni dottrinalistiche che l’avevano resa quasi un deposito di contenuti predefiniti e immutabili. La figurazione artistica li doveva illustrare il più fedelmente possibile. In quel momento un certo modo di concepire l’arte sacra era strettamente legato a un certo modo di interpretare la Scrittura. Nel frattempo il nostro cattolicesimo, grazie anche agli stimoli ricevuti dal mondo riformato, ha profondamente cambiato il suo modo di approccio alla Scrittura. Si può dire che la questione cruciale del Vaticano II è stata proprio quella di una revisione del concetto di Rivelazione e dell’interpretazione della Scrittura. Noi per esempio non leggiamo più, o non dovremmo leggere più, le pagine di Genesi con gli stessi schemi di un tempo, molte discipline moderne ci hanno aiutato a estrarne una profondità per cui non avevamo finora categorie adeguate. Perciò anche la tradizionale iconografia che le ha commentate per secoli per alcuni versi resta oggettivamente più povera dell’ermeneutica che oggi ne sappiamo trarre.

Eppure anche dopo questo avanzamento teologico circa un nuovo rapporto con la scrittura resiste un impianto figurale che ancora protrae i vecchi schemi di lettura. La persistenza acritica della classica iconografia cristiana, che ha mentalmente fissato schemi immaginifici assai resistenti, ha in qualche modo anche frenato una rinnovata visione dei temi cristiani ispirati a una lettura coerente della Scrittura. Non sempre le immagini sono veicolo di senso. Possono anche interporsi come degli schermi in cui si specchia il già noto. Sotto questo profilo la grande evoluzione delle arti, sia nel Novecento che in epoca postmoderna, ha offerto molte opportunità per un incontro senso/ rappresentazione che quanto alla Scrittura possa andare più in profondità. Esistono anche affondi nelle profondità bibliche che mere tecniche figurative non potrebbero mai esprimere. Le nuove tecniche contemporanee, così variegate e imprevedibili, sono una grande risorsa per offrire forma estetica a quanto difficilmente può manifestarsi in esplicita chiave iconica. Una certa ossessione figurativa persistente attorno alle questioni di estetica cristiana rivelino in realtà la non assimilazione del rinnovamento teologico degli ultimi tempi. Non è casuale che la “questione figurativa” sia normalmente impugnata in contese che mettono in discussione più radicalmente la recente riforma liturgica e il modello di cattolicesimo che le è coerente.

Sembrano semplici dibattiti di cultura artistica, ma sono in realtà contese di politica ecclesiale. Sotto questo profilo le questioni sull’arte sacra, coi loro battibecchi stanchi e i loro contenuti prevedibili, sono espressione di uno stallo che riguarda la coerente traduzione dello spirito conciliare in uno stile estetico che avrebbe dovuto qualificare anzitutto la liturgia, innovando in modo coerente i suoi spazi celebrativi, risintonizzandoli sulla centralità del rito comunitario e riducendo la pressione egemonica, ormai incongrua, del vecchio primato dell’immagine illustrativa. Questo passaggio non si è mai veramente compiuto. E non pare ci siano veri segnali di movimento. La circostanza ha qualcosa di veramente cruciale. Sotto sotto, il disagio cattolico rispetto all’arte di oggi rappresenta un sintomo, neanche dei più marginali, del suo tendenziale disadattamento nei confronti della cultura contemporanea come tale.

Questo nodo problematico è un solo esempio delle questioni teoriche che rendono il legame fra vita di fede e potere delle arti molto più complesso di quanto non appaia dai luoghi comuni della sua divulgazione retorica. Riprendere da qui il filo del discorso, non solo da qui ma almeno da qui, consentirebbe anche di chiamare in causa l’arte contemporanea con meno somma-rietà, sia dal fronte degli entusiasti sia da quello dei critici, evitando avventurismi di superficie e trattenendo impulsi regressivi. Ci fornirebbe oltretutto strumenti utili a viaggiare nel meraviglioso e multiforme mondo dell’arte contemporanea con la capacità di selezionare più che con la sicumera del liquidare. Naturalmente per una simile ambizione occorre il possesso di una vera competenza, la disponibilità a conoscere, la predisposizione a capire, l’umiltà di lasciarsi istruire. Ma forse questo atteggiamento non è ancora la qualità comune nei nostri ambienti di Chiesa. Se pure non mancano momenti in cui l’arte contemporanea ha provato a rimettersi a servizio della liturgia con una qualità all’altezza dell’oggetto, sono perfettamente consapevole che questi sono casi estemporanei, frutto di situazioni particolari, legate spesso più a predilezioni individuali che a condivisioni comunitarie. Come gli esperimenti nati all’ombra di Paolo VI sono rimasti per lo più temi per convegni di settore, queste felici situazioni restano sporadiche profezie senza un vero terreno per mettere radici. Nel suo insieme il cattolicesimo rimane legato a quella “trasandatezza devota” che forse agisce come un marchio di identità in un clima culturale che esso vive come una battaglia epocale. In ogni caso questi problemi ci insegnano che nel dossier arte/ Chiesa non si tratta semplicemente di qualità del gusto e aggiornamento delle forme, ma di una linea pastorale, di una tonalità spirituale e di una coscienza ecclesiale.

*Anticipiamo l'intervento del direttore scientifico della fondazione Bernareggi al convegno internazionale "Spazio sacro e iconografia. Limiti, sfide, responsabilità", che si svolge a Otranto dal 3 al 5 ottobre

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: