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Lo hanno definito “Effetto Michelangelo”: uno studio, pubblicato sulla rivista “Frontiers in Psychology” e condotto presso la Fondazione Santa Lucia Irccs di Roma, in collaborazione con la Sapienza, ha studiato l’efficacia di un’immagine artistica nella neuroriabilitazione di persone che, a seguito di un ictus, hanno subito danni neurologici gravi come la perdita dell’uso di un lato del corpo. All’interno di un ambiente di realtà virtuale è stato chiesto ai pazienti di muovere un cursore su una “tela” utilizzando la mano paralizzata. I movimenti scoprivano fino a completarle le immagini di opere come la Venere di Botticelli e la Creazione di Adamodi Michelangelo fino ai Tre musici di Picasso. Rispetto a un gruppo di pazienti che invece ha effettuato lo stesso esercizio solo colorando la tela bianca, i primi hanno riscontrato migliori risultati e un recupero più rapido
«Lo studio nasce nell’ambito delle ricerche sui neuroni specchio – spiega Marco Iosa, primo firmatario dello studio –. È stato osservato che le aree motorie della corteccia si attivano anche se guardo un’opera d’arte. Perché? Il trasposto emotivo ci fa immedesimare nell’azione del dipingere». Dallo studio emerge che a parità di richiesta «lavorare sull’arte dà una minore percezione della fatica e produce più precisione. L’opera che ha ottenuto risultati migliori è stata la Creazione di Adamo. Con altre dopo un po’ di tempo l’operazione diventava meccanica e aumentavano gli errori. Con Michelangelo no, l’attenzione non calava fino alla fine».
“L’arte cura” è uno motto sempre più diffuso. È qualcosa di cui c’è sempre stata una coscienza empirica (si pensi a David che placa l’ira di Saul con il canto e la cetra o al ruolo magico-terapeutico della musica nelle culture popolari), ma da almeno due decenni il fenomeno è diventato oggetto di studio. Nel 2019 l’Oms ne ha pubblicato una vasta sintesi: oltre 3mila studi di vario tipo hanno identificato un ruolo importante per le arti (tanto fruite quanto realizzate) nella prevenzione e nel trattamento delle malattie come nella promozione della salute mentale e fisica.
Nel web questo approccio spesso circola in una versione banalizzata che rischia di ridurre l’esperienza estetica a un tranquillante o a una pratica da spa. Ascoltare Mozart o visitare un museo “per rilassarsi” non sono certamente attività da biasimare ma ci si può chiedere se non le appiattisca al livello di una doccia cromoterapica.
Più in generale questa enfasi nei confronti dell’“arte che cura” appare non di rado come una declinazione di quella che Byung-Chul Han chiama la “società palliativa”, dove vige una “anestesia permanente”. Il compito da sempre proprio dell’arte di collocare il dolore a una distanza utile a gestirlo diventa quello di allontanarlo a una distanza indefinita. L’arte diventa medicina non solo in termini metaforici ma fattuali e allo stesso tempo garantisce un sovrappiù lenitivo, una ricchezza di esperienza che la neutralità tecnica della scienza medica non ha. Si completa così la trasformazione dell’arte in “religione”, della quale i musei sono i santuari dove cercare la salute dell’anima e impetrare quella del corpo.
Allo stesso tempo, però, un approccio scientifico all’arte, che indaga sotto altra forma dalla filosofia perché l’uomo ne abbia bisogno e la produca, contribuisce anche a demitizzarla e liberarla da se stessa. Se le arti sono entrate nelle corsie d’ospedale e, con maggiore fatica, nella formazione dei medici (da segnalare a questo proposito il Laboratorio di Arte e Medical Humanities della facoltà di Farmacia e Medicina della Sapienza), accade che gli stessi musei diventino luoghi di cura. Pochi giorni fa la Pinacoteca di Brera ha presentato un progetto che vede persone con disagio psichico guidare i visitatori presentando le opere attraverso la propria esperienza.Ma la pandemia ha spostato l’asticella. Similmente a quanto accaduto all’estero, diverse realtà in Italia si sono proposte e alcune (come il Madre di Napoli e il Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano) sono diventate centri vaccinali contro il Covid-19.
Una scelta che riguarda il processo di ripensamento del ruolo e della presenza nella società a cui la pandemia ha costretto i musei. Allo stesso tempo pone questioni che forse meritano un dibattito: la trasformazione temporanea di una sala espositiva in sala “medica” è una implementazione della funzione museale o una sua sospensione? Ossia: c’è una specificità, un plusvalore o gli spazi si rivelano semplicemente adatti allo scopo? Apriremmo nei musei ambulatori medici al di fuori di un tempo emergenziale?
Paolo Inghilleri, ordinario di psicologia sociale all’Università degli Studi di Milano, in Luoghi che curano (Cortina, pagine 168, euro 17,00) affronta il tema con un approccio diverso. Inghilleri muove da una diagnosi delle cause specifiche del disagio nella contemporaneità, riconoscendole da una parte in una disgregazione dei “beni comuni” (che essi siano ambienti, sistemi, oggetti) che «nascono e assumono significato grazie all’azione umana e, di conseguenza, il lato soggettivo e relazionale diventa importante quanto quello economico e materiale», dall’altra in un eccesso di scelta, ossia il trovarsi in balia di infinite possibilità che generano meccanismi come rimpianto e insoddisfazione. In parallelo però sottolinea anche i motivi per cui “non stiamo troppo male”, come lo strumento dell’empatia e la capacità di “depositare la memoria nelle cose”, mettendola così a disposizione delle generazioni future.
Come la perdita dei beni comuni è un grave problema, il loro recupero è vitale: essi infatti «costituiscono una vera e propria forma di capitale, un capitale sociale, cioè un sistema di relazioni attraverso il quale è possibile trasmettere informazioni e risorse cognitive». La qualità progettuale e simbolica dei luoghi e degli oggetti come strutture relazionali consente di costruire una sorta di habitat sostenibile per la specie umana.
Luoghi sacri come i santuari (di ogni religione) e laici come piazze teatri e musei funzionano in questo modo: «Vivere e percepire che altri, anche persone sconosciute provenienti da altri Paesi e da altre culture, hanno le stesse nostre emozioni, sono elementi che ci fanno stare bene, che riequilibrano la nostra mente senza quasi volerlo, cioè in modo facile, autonomo e strutturante». I luoghi, gli oggetti, gli artefatti della cultura contengono uno stratificato giacimento di memorie e schemi cognitivi e possono essere progettati per esserne riempiti. La psicologia ambientale ha messo a punto modelli e teorie sulle qualità che rendono gli spazi (costruiti o modellati con la natura) ideali all’abitare comune sotto il profilo intellettivo ed emozionale: «Non si tratta di caratteristiche solo strutturali come la luce, il colore, le dimensioni, l’estetica, quanto piuttosto di tipo relazionale».
I beni comuni, dunque, sono processi che prima di tutto creano relazione e appartenenza «e questo porta alla nascita di una nuova qualità di cittadinanza che possiamo chiamare cittadinanza psicologica», ossia al «fatto di sentirsi davvero appartenenti alla collettività e ai luoghi della nostra vita e di agire, di conseguenza, come cittadini responsabili capaci di sviluppare comportamenti virtuosi che fanno star ben noi e fanno star bene la collettività». Quella proposta da Inghilleri non è semplicemente la cura del malessere di un singolo ma un prendersi cura dell’intera società.
È una linea che significativamente si integra con il discorso sull’“ estetica della cittadinanza” sviluppato da Irene Baldriga a partire dal patrimonio culturale. È dunque necessario che a fronte dell’isolamento “terapeutico” imposto dalla pandemia è necessario rendere accessibili il prima possibile musei, teatri, auditorium, cinema: anche in quanto luoghi di riabilitazione “post traumatica” della vita interiore e della dimensione comunitaria attraverso una pratica sociale che richiede una esperienza individuale e condivisa.