martedì 19 agosto 2014
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Una grande cartina proiettata su un telo bianco. Una mano e un pennarello che percorrono Paesi, attraversano confini, avanzano e tornano indietro, indugiano in qualche posto per poi ripartire, linee tortuose e zigzaganti, che raccontano itinerari che possono durare mesi o anni. E una voce fuori campo, che racconta in pochi minuti il viaggio di una vita.È la video-installazione di un giovane artista marocchino, Bouchara Khalili, classe 1975, che espone otto teli e otto storie, raccontate con estrema semplicità dagli stessi protagonisti. Un somalo, un bangladese, un palestinese… Sono loro, ma potrebbe essere chiunque altro. Uno delle migliaia di migranti che si spostano in questo travagliato mondo. Per fame o per guerra, per mancanza di libertà o per una vita migliore. Storie emblematiche e universali di gente in cammino, che spesso finisce sulle coste dell’Italia e nelle nostre città. Lampedusa, Bari, Roma sono i punti finali di questi pennarelli che hanno tracciato linee apparentemente sconnesse; sono le mete (talvolta definitive talvolta solo temporanee) di questi viaggi della speranza e della determinazione, del coraggio e della disperazione. Raccontati con una semplicità disarmante e sconvolgente.The Mapping Journey Project, 2008-2011 è una delle tante opere esposte al New Museum of Contemporary Art di New York, fino al 28 settembre, all’interno di un’ampia mostra collettiva del titolo "Here and Elsewhere" (Qui e altrove). Una mostra non convenzionale e per nulla didascalica, che raccoglie un gran numero di opere (soprattutto foto e video) di quarantacinque artisti di dodici Paesi del mondo arabo. Il titolo è preso in prestito da un vecchio film del 1976 di Jean-Luc Godard, Jean-Pierre Gorin e Anne-Maria Miéville: Ici et ailleurs. Pensato originariamente come un documentario pro-palestinese, è diventato nel corso della realizzazione una riflessione molto più composita e articolata sull’uso delle immagini come strumento per creare una coscienza politica.Allo stesso modo, questa mostra restituisce uno sguardo complesso e problematico sugli avvenimenti e gli sconvolgimenti che hanno interessato il Medio Oriente in questi ultimi decenni. Non solo Israele e Palestina (anche se c’è molto di questo), ma sguardi incrociati sull’intera regione, con alcune opere molto interessanti, in cui si incontrano, si incrociano e si problematizzano a vicenda arte e storia, ruolo dell’artista e impegno politico, realtà - e "verità" - e la sua rappresentazione. Il tutto, appunto, legato a un’area del mondo iper-mediatizzata, ma non per questo necessariamente ben documentata e rappresentata. Gli eventi di queste settimane sono lì a darne l’ennesima testimonianza.C’è la guerra, in questa mostra, e ci sono le primavere arabe, ci sono artisti di fama e moltissimi giovani. E c’è una straordinaria varietà di forme rappresentative. Ci sono personaggi come Anna Boghiguian, nata al Cairo nel 1945, e i suoi potenti dipinti che raccontano la rivoluzione egiziana, mischiando riferimenti alla regina Nefertiti con uno stile che si ispira all’espressionismo tedesco. O la poetessa, filosofa e artista Etel Adnan, libanese, classe 1925, di cui è esposta The Arab Apocalypse, un misto di testi, simboli e annotazioni, che evocano la guerra civile libanese e una possibile via (solo artistica?) di redenzione. Ma ci sono anche molti giovani, come Fakhri el Ghezal, nato ad Akouda in Tunisia nel 1981, che racconta tra pubblico e privato, tra serio e ironico, la caduta del presidente Zine el-Abidine Ben Ali nel 2011. E molte donne, come l’algerina Marwa Arsanios, con il suo video Have you ever killed a Bear? Or becaming Jamila o la libanese Lamia Joreige, con una video-istallazione Objectifs of war, entrambe al confine tra realtà e finzione, tra memoria collettiva e ricordo personale. Tra un "qui", che forse si riesce a comprendere meglio, guardando anche all’"altrove".
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