giovedì 25 luglio 2013
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Il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia, due mostre alla Tate Modern di Londra, una personale al Brooklyn Museum of Art di New York, un intero Paese, il Sudafrica – con le sue arti e i suoi artisti – alla ribalta per un intero anno in Francia... L’arte africana contemporanea conquista il mondo e lo fa nei santuari artistici più importanti e prestigiosi. Una vera consacrazione, come non era ancora accaduto. Mai come questa estate, infatti, l’arte contemporanea africana trova spazi e occasioni per proporsi sulla scena globale, con grandi artisti, già ampiamente conosciuti e riconosciuti, ma anche con giovani e sorprendenti talenti. Come Edson Chagas, classe 1977, nato a Luanda, fuggito dalla guerra e tornato in Angola per riprendere un sentiero interrotto, personale e collettivo. Lo fa attraverso un’opera fotografica, in bilico tra documentazione e ri-creazione, che gli è valsa il Leone d’Oro a Venezia. Enciclopedic City, la sua impressionante istallazione, composta da una ventina di pallet di legno con pile accatastate di fotografie, racconta una città in evoluzione, con oggetti recuperati e fotografati di fronte a muri, porte, strade malandate. «Una storia – dice Chagas – che forse parla di un nuovo benessere, grazie al quale ora gli abitanti di Luanda iniziano a buttar via le cose rotte». Il tema del riciclo è ben presente anche nell’opera di El Anatsui, artista ghanese, trasferitosi in Nigeria, dove ha insegnato presso l’University of Nigeria, di Nsukka. Ritenuto uno dei più grandi artisti contemporanei, è presente sino al 4 agosto al Brooklyn Museum of Art di New York. Si tratta della prima personale di un artista africano contemporaneo, un ulteriore riconoscimento del suo talento e della sua arte, ormai apprezzati a livello globale. El Anatsui aveva partecipato anche alla 52° Biennale di Venezia del 2007, dove, tra l’altro, il Leone d’Oro alla carriera – un’altra prima assoluta – era andato al grande fotografo maliano Malick Sidibé. El Anatsui attinge dalla tradizione del suo Paese d’origine i colori e il gusto estetico dei tessuti kente o degli abiti da cerimonia nyekor; li combina con gli stimoli e il dinamismo della vita e dell’arte nigeriana; e dà al tutto una dimensione globale, ispirandosi alla storia dell’arte astratta. Il risultato sono degli enormi arazzi, realizzati con materiali di recupero e principalmente con tappi a corona della distilleria di Nsukka, schiacciati e cuciti insieme con altri materiali, per dare origine a enormi, coloratissimi, suggestivi pannelli, che rivestono le sale del Brooklyn Museum, mentre un’enorme scultura a parete è presente, in contemporanea, anche alla Royal Accademy di Londra. Ed è proprio la capitale britannica che questa estate diventa il tempio dell’arte contemporanea africana, grazie a due imponenti mostre promosse dalla Tate Modern nell’ambito di un progetto biennale di scoperta e valorizzazione di artisti africani e nuove tendenze emergenti. «Una cosa impossibile venti o trent’anni fa – dice il direttore della Tate, Chris Dercon – ma che oggi è diventata assolutamente normale e necessaria». Lanciato nel novembre 2012, con una serie di eventi e performance che hanno visto protagonisti giovani artisti come Otobong Nkanga (Nigeria, 1971) e Nástio Mosquito (Angola, 1981), il progetto della Tate trova il suo massimo compimento questa estate con due personali, aperte fino al 22 settembre, che celebrano altrettanti artisti, diversissimi tra loro, ma entrambi interpreti emblematici di un nuovo modo di fare arte oltre le frontiere. Ibrahim El-Salahi, nato a Omdurma, in Sudan nel 1930, è arrivato in Inghilterra dopo essere stato incarcerato con false accuse di attività anti-governative. Dal 1998 vive e lavora a Oxford. «Mi manca il Sudan, ma ormai ho messo radici qui». Un uomo in bilico tra mondi diversi, come la sua arte, riconosciuta, apprezzata ed esposta in molte parti del mondo, ma per la prima volta raccolta in una mostra così ampia (oltre trenta opere) e importante. «C’è voluto molto tempo – dice –. Non so se per pregiudizio o ignoranza. Ma io ho continuano a lavorare. E spero che la mia opera e il messaggio che contiene possano raggiungere il pubblico più ampio possibile, in Sudan, come in Europa o in America». Con lui, in un’altra ala della Tate, un altro personaggio dalla composita identità personale, culturale e artistica: Meshac Gaba. Beninese di nascita si è trasferito in Olanda, dove vive e lavora. Qui, snobbato da musei e gallerie, crea il proprio Museum of Contemporary African Art 1997-2002, composto da 12 stanze – da quella dei giochi a quella della musica a quella del (suo) matrimonio dove si incontrano oggetti e ricordi reali mischiati e indistinguibili dalla creazione artistica. Oggi le stanze di Gaba sono state in parte donate in parte acquisite dalla Tate Modern che le espone nella sua interezza. Infine, un po’ del dinamismo e della straordinaria vitalità e varietà dell’arte contemporanea del Sudafrica – una delle scene mondiali attualmente più interessanti e all’avanguardia – transitano quest’anno dalla Francia, che ha dedicato l’intero anno alla conoscenza di questo Paese – Saisons Afrique du Sud-France –, con iniziative, eventi, mostre e performance in diverse località. Attualmente, è in corso, a La Maison Rouge di Parigi, una mostra dedicata alla scena artistica di Johannesburg e, al Palais de Tokyo, una collettiva di giovani artisti dal titolo This House, che indaga la relazione tra forme architettoniche e certe strutture politiche. Anche a Milano, il Sudafrica è presente con una mostra fotografica sull’apartheid, inaugurata il 9 luglio al Pac. Una retrospettiva sugli anni bui della segregazione razziale, che è anche un utile background per capire dove sta andando oggi il Sudafrica del dopo-Mandela.
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