domenica 6 maggio 2018
Lo scrittore e sceneggiatore, sodale del regista Iñarritu, in Italia con il nuovo romanzo “Il selvaggio”
Guillermo Arriaga, scrittore artefice del nuovo cinema messicano

Guillermo Arriaga, scrittore artefice del nuovo cinema messicano

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«Alzai lo sguardo e contemplai per l’ultima volta il punto in cui era scomparso Colmillo. Tornai al Suv. Salii e avviai il motore, pronto a tornare al ranch per ritrovare Avilés e Chelo, la mia nuova famiglia. Per ritrovare il futuro. Per ritrovare finalmente la vita». Si conclude con queste parole Il selvaggio, l’ultimo libro di Guillermo Arriaga, pubblicato da Bompiani-Giunti. Il protagonista, Juan Guillermo, ha appena restituito alla foresta canadese uno splendido lupo, Colmillo appunto. E con quel gesto liberatore, acquista anche la libertà di lasciarsi alle spalle un passato di morte e violenza. Per proiettarsi verso il futuro. Nonostante il suo linguaggio crudo, dunque, Il selvaggio è un inno alla vita. «Il fatto è che credo nell’essere umano. Nella sua capacità di reinventarsi, di ricostruirsi. Ciascuno ha diritto alla speranza. Può e deve trovarla. Attraverso l’amore, nelle sue varie manifestazioni. In fondo, tutto ciò che scrivo è una riflessione sull’amore. Sono un romantico dopotutto… », aggiunge ridendo l’autore messicano che ha alle spalle altri tre romanzi – Il Bufalo della notte, Un dolce odore di morte e Pancho Villa e lo Squadrone Ghigliottina , oltre alla raccolta Retorno 201, tutti pubblicati anche in Italia. Eppure il nostro pubblico lo associa soprattutto al cinema. Arriaga ha scritto, nel 2000, Amores Perros, la sceneggiatura che ha inaugurato l’epoca d’oro del cinema messicano. Un’era consacrata quest’anno dall’Oscar a La forma dell’acqua di Guillermo Del Toro. Amores Perros ha dato anche origine al sodalizio artistico con il regista Alejandro González Iñarritu, proseguito con 21 grammi e Babel. Stavolta Arriaga è in Italia nei “panni dello scrittore”: una maratona di eventi da Perugia a Torino, passando per Milano – dove giovedì prossimo al Teatro Franco Parenti ci sarà un serata con Mario De Santis e le letture di Marco D’Amore – per presentare Il selvaggio. «Non esiste un confine netto tra cinema e lettera- tura. Anche una sceneggiatura può essere un’opera letteraria».

Eppure sembra molto diverso scrivere un romanzo dal copione di un film…
«In realtà, la differenza è sottile e riguarda il punto di vista. La letteratura si fa sempre in prima persona, il cinema in terza. Perché quest’ultimo implica sempre una distanza. La storia e i personaggi vengono osservati dall’esterno. In un romanzo accade l’esatto contrario. Nel momento in cui racconti i pensieri di un personaggio, entri in lui e ti trasformi in io narrante anche se scrivi in terza persona».

Lei nasce romanziere. Com’è avvenuto il “salto” nel cinema?
«Per caso. Mi avevano chiamato per comprare i diritti d’autore dei miei libri. Ci siamo conosciuti. E alla fine mi hanno proposto di fare delle sceneggiature».

E la collaborazione con Iñarritu com’è nata?

«Ci aveva presentato un mio ex alunno di cinematografia. Dopo un po’, Alejandro mi ha telefonato per chiedermi di scrivere il copione di una commedia romantica che aveva in testa. Non avevo avuto fortuna nella produzione su commissione, dunque ho rifiutato. Gli ho parlato, però, dell’opera che pensavo di dirigere, Perro negro, perro blanco, che poi sarebbe diventato Amores Perros. L’idea gli è piaciuta e mi ha detto che avrebbe voluto dirigerla lui. Così ci siamo messi a lavorare insieme per un periodo».

In seguito, lei ha redatto la sceneggiatura del famoso Le tre sepolture di Melquiades Estrada di Tommy Lee Jones. Poi è passato alla regia con The Burning Plan, dunque, ha prodotto Ti guardo, diretto dal venezuelano Lorenzo Vigas, il primo film latino a vincere il Leone d’Oro a Venezia nel 2015. È un periodo felice per il cinema latinoamericano e messicano in particolare. Come lo spiega?
«Tutto è cominciato con Amores Perros. Ha segnato un prima e un dopo. E ha aperto una strada che poi molti stanno percorrendo. Da Michel Franco a Amat Escalante, da Carlos Reygadas, a Alonso Ruiz Palacios».

Che strada ha aperto?
«Ha fatto riscoprire al cinema messicano l’importanza di un’identità propria. Prima, tanti registi volevano fare film in stile Hollywood. Amores Perros ha dimostrato che si poteva fare altro – cioè trovare il nostro peculiare sguardo – e con successo. Ha dato, in sintesi, al cinema messicano la sicurezza che cercava».

Che cosa contraddistingue tale punto di vista?
«Dal Sud del mondo, la realtà e gli esseri umani si vedono in modo più crudo. E diretto».

Una delle sue caratteristiche distintive è la capacità di far intrecciare storie inizialmente parallele. Perché questa scelta? «L’ispirazione me l’ha data William Faulkner, il principale dei miei maestri. È una tecnica molto letteraria che ho voluto trasporre anche nel cinema. In realtà, però, non pianifico a tavolino romanzi e sceneggiature. Ho in testa un’immagine o un dialogo e da lì comincio. La scrittura è un processo di scoperta. È un’improvvisazione. Poi le storie affiorano e si compongono. Come, lo so solo in corso d’opera».

Ha citato Faulkner. Nel cinema chi sono stati, invece, i suoi maestri?
«Adoro John Houston e Francis Ford Coppola. Devo molto poi al cinema italiano. In primis ai grandi del neorealismo, ma anche alle commedie di Lando Buzzanca e agli “spaghetti western” di Sergio Leone. Quando ero ragazzo frequentavo il cinema del quartiere dove ti offrivano tre spettacoli per tre pesos (circa 15 centesimi di euro). E proiettavano di tutto: nella stessa sera vedevi Il Gattopardo insieme a Lo chiamavano Trinità ».

Con quale regista di qualunque luogo ed epoca avrebbe voluto fare un film?
«Ho sempre sognato di scrivere un copione per Francis Ford Coppola e farlo interpretare a Marlon Brando».

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