sabato 3 agosto 2013
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Quest’anno Marsiglia indossa la livrea sgargiante di capitale europea della cultura. Ma nel frattempo, nella «città focea», c’è pure chi comincia a rispolverare gli abiti scuri in vista del 2015, quando si commemorerà il centenario del genocidio armeno. A Marsiglia, infatti, vive ancora la più importante comunità d’origine armena d’Europa, forte di circa 80 mila membri, sul mezzo milione che conta in tutto la Francia. E sui moli marsigliesi non si è spenta l’eco tragica degli sbarchi di superstiti che inaugurarono, attorno agli anni Venti, l’epopea della «piccola Armenia» transalpina, destinata poi a radicarsi pure lungo il Rodano e a Parigi. Anche di recente, certi dibattiti parlamentari tempestosi hanno mostrato che la «questione armena» continua a bruciare in Francia più che in ogni altra contrada europea. Ma finora le sfuriate emotive e le condanne ripetute del «negazionismo turco» hanno raramente contribuito a far comprendere in profondità i nodi irrisolti della Turchia di oggi. Pure in Francia, da tempo, il giudizio internazionale positivo sul decollo economico e sugli altri progressi turchi tende a relegare l’eredità dolorosa del genocidio del 1915 nel novero dei «conti aperti con la Storia». Fra i problemi di memoria, più che fra quelli d’attualità immediata. Non la pensano affatto così i due autori di La Turchia e il fantasma armeno, appena pubblicato in Francia da Actes Sud.In quest’inchiesta basata su una fitta serie di reportage ben documentati e di notevole qualità narrativa, Laure Marchand e Guillaume Perrier, corrispondenti di lungo corso in Turchia rispettivamente per Le Figaro e Le Monde, cercano di dimostrare che la negazione tenace del genocidio armeno da parte di Ankara esprime ancor oggi alcune delle contraddizioni sociali e istituzionali turche più intime, irrisolte e potenzialmente esplosive. Dopo una tappa preliminare nella Marsiglia armena di oggi, il viaggio si snoda ai quattro angoli della Turchia, scandagliando le tracce superstiti e quelle ancor più nascoste del «fantasma armeno». Gli autori raccontano ad esempio la parabola di Armen Aroyan, membro della diaspora armena statunitense, divenuto in età avanzata un «archeologo del genocidio» e l’organizzatore di periodici viaggi della memoria fra le città annientate dalle deportazioni. La parola è data presto pure agli «armeni dell’ombra», ovvero i discendenti di coloro che scelsero di convertirsi più o meno formalmente all’islam per sfuggire ai massacri, spesso senza smarrire intimamente, o fra le mura domestiche, la propria fede e identità cristiane.Oggi, fra questi discendenti, soprattutto nell’oasi di relativa tolleranza rappresentata da Istanbul, sboccia sempre più spesso, sia pure fra mille precauzioni, il desiderio di battezzarsi. Il viaggio prosegue fra i monconi delle chiese e degli altri edifici storici armeni regolarmente saccheggiati, trasformati in stalle o depositi polverosi. Solo certi gioielli architettonici sono stati salvati, ma per essere quasi sempre trasformati in moschee. Il palazzo presidenziale turco di Cankaya, poi, è indicato come il caso più emblematico delle dimore patrizie armene finite nel mirino di spoliazioni sistematiche. Ancor oggi, sostengono gli autori, continua un «genocidio delle pietre» volto a cancellare le iscrizioni e ogni altro simbolo originario cristiano. Il piccolo villaggio meridionale di Vakif è l’unico che abbia conservato una popolazione interamente armena, sia pure infima rispetto al passato. Qui, gli abitanti continuano a pagare ogni giorno la loro diversità. L’insediamento di un nuovo parroco, ad esempio, si è rivelato a lungo proibitivo a causa di una tenace opera d’ostruzione dall’alto. A corroborare gli argomenti degli autori è pure l’interpretazione di fondo offerta già nella prefazione dallo storico Taner Akçam, docente negli Stati Uniti e fra i primi intellettuali turchi a riconoscere esplicitamente il genocidio, che provocò probabilmente circa un milione e mezzo di morti. Un passaggio della sua analisi è tanto esplicito, quanto agghiacciante: «Si tratta di una problematica direttamente legata alla Repubblica e alla nostra stessa esistenza. La Repubblica si fonda in effetti sulla scomparsa della popolazione cristiana che viveva in Turchia, in altri termini sull’annientamento di un’entità esistente. Avendo fondato la nostra esistenza sulla scomparsa di un’altra entità, ogni discorso su quest’entità provoca in noi paura e terrore. Nel nostro Paese, la difficoltà nell’affrontare il problema armeno si basa su questa dialettica fra l’essere e il nulla». Ma alla fine, gli autori insistono pure su una delle possibili chiavi future per disinnescare «l’ossessione negazionista» profondamente radicata ai vertici del sistema istituzionale turco. Durante il genocidio, non mancarono affatto dei funzionari turchi che rifiutarono di eseguire gli ordini, o dei semplici cittadini che contribuirono, nei modi più disparati, a salvare migliaia di armeni. Oggi, nonostante l’ostilità delle autorità, la società civile turca comincia a promuovere la memoria di questi «giusti». Certi spiragli di speranza sono dunque già visibili, anche se gli autori preferiscono chiudere all’insegna del realismo: «Il riconoscimento non sarà in programma nel 2015, la Turchia probabilmente non volterà la pagina del 1915 in occasione di questo centenario. Ma almeno, un’altra lettura della storia potrebbe trovare spazio».
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