mercoledì 6 settembre 2017
La grande attualità del commediografo greco: entra nelle viscere del proprio tempo eppure resta immortale. Uno studio di Luciano Canfora ne fa emergere la sua capacità di fare arte e critica politica
Una scena del film “Il grande dittatore” di Chaplin (1940)

Una scena del film “Il grande dittatore” di Chaplin (1940)

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Diavolo d’un uomo, Luciano Canfora. Già ad apertura del suo Cleofonte deve morire. Teatro e politica in Aristofane (Laterza, pp. 518, euro 24), dai un’occhiata alla fitta pagina di titoli, tra 'foglio di guardia' e frontespizio, e ti senti schiacciato. Ben 26 monografie, alcune di esse di grande successo e tradotte in molte lingue: libri di filologia, di storia, di critica letteraria, di politologia (come il magistrale L’uso politico dei paradigmi storici e il disincantante Critica della retorica democratica). Canfora non è per nulla uno studioso, principalmente dell’età antica, che mantenga anche un occhio sempre attento alle vicende politiche dell’oggi: è uno che guarda con attenzione all’oggi proprio perché è uno studioso, e uno studioso dell’età antica per giunta.

Canfora non attualizza mai la storia: si limita a mostrare che essa è obiettivamente attuale, lungi da trucchi e da forzature. Che poi ciò gli venga 'naturale' anche, e magari soprattutto, nella misura in cui la 'sua' storia antica è divenuta, da almeno sei secoli (vale a dire dall’inizio dell’età moderna), un paradigma costante per quella moderna e contemporanea, può darsi: ma non cambia nulla. Salvo il dar ragione a chi segue con attenzione il lavoro e le pubblicazioni di questo straordinario protagonista della cultura italiana ed europea del fatto che tanta capacità di analisi, tanta erudizione nutrita certo di moltissimi libri eppur mai 'libresca', tanta curiosità intellettuale, abbia costantemente lasciato da parte sia il cosiddetto medioevo sia il campo propriamente religioso.

Ed eccoci all’oggi: anzi, all’Oggi Eterno, come ormai dal XV secolo a questa parte siamo abituati a pensare quando ci càpiti di richiamare il V secolo a.C. nell’Atene di Pericle e di Platone. Siamo negli anni cruciali, anzi, diciamolo con le parole stesse dell’Autore, «negli anni infuocati in cui Aristofane operò, quelli della grande guerra e del tracollo dell’impero (431-404 a.C.)» (p. 4). L’impero in questione è ovviamente quello ateniese, distrutto dalla sconfitta del 404 che segnò il ritorno dell’oligarchia in Atene col governo 'dei Trenta Tiranni': e che, più che una vittoria di Sparta, fu in realtà una vittoria del Gran Re di Persia in gran parte regista della situazione. Nel contesto delle lotte tra oligarchi e quella parte degli ateniesi che a essi si opponevano (e che non rappresentavano il popolo nel suo complesso), Aristofane con le sue commedie si pone nel ruolo molto particolare di colui che combatte e satireggia i 'demagoghi', i 'fannulloni', facendosi magari portatore delle posizioni della gente comune, che soffre a causa della politica, e che finisce col presentarsi come il «vero popolo»: i contadini ad esempio.

Siamo qui, tra l’altro, dinanzi a un problema oggi risorgente, anzi dilagante, il 'populismo' come antipolitica. Aristofane, lo vediamo nei Cavalieri, finisce per rimproverare Demo, i meno abbienti e più politicizzati, per il fatto ch’esso si affida a demagoghi come Paflagone (dietro il quale si nasconde il leader democratico Cleone) anziché rivolgersi semmai ai kaloikagathoi, agli 'ottimati'. Il ruolo politico e demagogico di Aristofane e il suo appoggio agli aristocratici erano stati ben compresi, come Canfora ricorda, da Friedrich Nietzsche. Aristofane amava ed elogiava i contadini anche perché li contrapponeva ai cittadini 'oziosi', sempre dediti a inconcludenti assemblee e a estenuanti polemiche giudiziarie. Dopo la crisi del 411 e il golpe che introdusse l’oligarchia ad Atene, seguita dal ritorno di Alcibiade, cominciò a farsi strada un uomo politico della parte definibile come 'democratica', Cleofonte, che si oppose con successo a Crizia e in seguito ad Alcibiade e che fino all’ultimo fu fautore della guerra a oltranza contro Sparta. Qui la politicità di Aristofane emerge tutta, attraverso un’esemplare analisi delle sue commedie e soprattutto delle Rane.

Dopo la sconfitta ateniese di Egospotami, del settembre 405, e mentre si profilava ormai l’assedio spartano di Atene in un clima dominato dal bellicismo esasperato di Cleofonte, il demagogo cadde vittima di un complotto politico e, al termine di un processo non propriamente equo, venne giustiziato per tradimento. In Le Rane, Aristofane aveva 'previsto' e caldeggiato tutto ciò. Un libro che può interessare solo gli antichisti, i classicisti, gli amanti del teatro comico? È vero il contrario. Anche grazie alla straordinaria abilità e ai finissimi strumenti critici di Canfora, che chiama efficacemente in causa la struttura stessa del rapporto tra politica e intellighentzija accomunando tipologicamente (e diacronicamente) «Aristofane ai comportamenti e atteggiamenti mentali degli intellettuali che - mentre fanno strame del 'mestiere di politico' sanno affiancarsi ( cum dignitate e con molte 'libertà') ai ceti e ai gruppi considerati custodi della tradizione»; e da qui a passare ai due grandi saggi di Lev Trockij, Compagni di strada e Céline e Poincaré, il passo è breve e, a questo punto, addirittura obbligato.

Come ovvio appare (ma, attenzione, 'ovvio' non è affatto sinonimo di 'banale') chiamare in causa Charlie Chaplin e la sua profonda, impressionante immedesimazione nel personaggio pubblico ch’egli in quel momento più detestava, Adolf Hitler, per spiegare come Aristofane, nei Cavalieri, avesse accettato d’interpretare lui stesso la parte di Paflagone, l’odioso e odiato personaggio che alludeva chiaramente a Cleone, in quanto nessuno osava sostenere quel ruolo.

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