venerdì 6 agosto 2010
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In principio era il palo. Piantare un palo è un gesto primario e la prima analogia che si stabilisce è quella tra l’uomo che si alza in piedi e la verticalità del palo. «L’homo è sapiens solo perché, o dopo che, è erectus», scrive Joseph Rykwert – il più importante storico dell’architettura vivente – nel volume La colonna danzante, che esce in questi giorni da Scheiwiller. Quasi trecento pagine fitte fitte e altre 150 circa di note e apparati (ancor più fitte), che sviscerano lo scibile umano su un’antica questione, che Rykwert, alla sua maniera, precisa immediatamente nella nota di apertura: «Parlo di "ordine in architettura" e non degli ordini». E subito dopo incalza con una definizione quasi lapalissiana: «La colonna, e la trabeazione che essa sostiene, quando sono combinate in modo da risultare riconoscibili come appartenenti a una determinata tipologia, si chiamano ordine». La questione, nel libro, assume immediatamente una sfaccettatura antropologica, e ne somma altre storiche, teoriche, tecniche ed estetiche (anche se l’autore dice di non aver voluto toccare nello specifico le tante questioni estetiche poste dall’architettura, limitandosi a quelle più tecniche e pratiche). Si tratta, altra precisazione, di architettura in uno sviluppo storico riferito alle civiltà e alle culture che s’affacciano sul Mediterraneo. I Greci, anzitutto, che restano il «canone» messo a punto dopo millenni di «evoluzione», poi sistematicamente smontato e rimontato negli ultimi due. Vitruvio, l’architetto romano vissuto nel I secolo a.C., aveva fissato – per fermarsi alle tipologie classiche – quattro ordini che occupano una parte consistente del suo celebre trattato De architectura. Vitruvio ne parla, scrive Rykwert, ma ci vogliono secoli prima che la categoria «ordine» entri nel linguaggio dell’architettura: «Leon Battista Alberti, che scriveva intorno al 1450, impiega ancora il termine ordo per indicare il più generico e astratto ordine, ma anche per riferirsi a una fila di colonne o a una loro orditura, a un piano e più semplicemente a uno strato o a un corso di mattoni o di pietra». Gli ordini che Vitruvio illustra, e che terranno banco per moltissimi secoli, sono il dorico, lo ionico, il corinzio, a cui si affianca un ordine che è la sintesi dei tre, l’italico. Ed ecco che nel dibattito teorico del Rinascimento, con le traduzioni di Vitruvio, si fa spazio un quinto ordine composito, che non ha molti appoggi sulle fonti classiche, ma viene presto accettato (segno anche di una volontà di differenziazione dall’antico) ed è Serlio a fissarne i caratteri. Il quarto libro, che fu in realtà il primo della serie, pubblicato nel 1537 e dedicato agli ordini, costituisce – scrive Rykwert – «il primo esempio di scritto sull’architettura in cui furono canonizzati i cinque ordini, e la parola ordine venne applicata specificamente alle proporzioni e alle decorazioni delle colonne». Questa «codificazione» è anche il segnale che l’architettura da linguaggio «pratico» sta diventando una vera e propria teoria con significati di volta in volta geometrici, simbolici, antropologici, estetici, religiosi. Ecco perché, fin dalle prime righe, Rykwert dichiara di voler parlare di «ordine» ma non di colonne. Tantopiù che, a distanza di secoli, anche da quelli rinascimentali e barocchi, gli ordini sono stato oggetto di una progressiva erosione che ha portato poi nell’epoca contemporanea ad affermare che l’unico linguaggio accettabile sia quello «razionale» o «funzionale» privo di stili. Fu il tema dei pionieri moderni, che bandirono l’ornamento  (dopo il pastiche eclettico ottocentesco) e proclamavano che l’unico stile ammesso è quello dove non ci sono stili. Lo slogan preferito da molti, e spesso frainteso, era quello di Adolf Loos: «ornamento è delitto». Ma Loos non aveva completamente bandito la colonna dai suoi edifici pubblici, e partecipando nel 1922 al concorso per l’edificio del "Chicago Tribune" presentò il progetto di «una gigantesca colonna dorica in granito nero levigato» (stabilendo un gioco allusivo tra la colonna tipografica e l’edificio a forma di colonna). Così – scrive Rykwert – Loos «fece del progetto per il "Chicago Tribune" il proprio omaggio più aggressivo alla colonna greca». Del resto, Rykwert ricorda anche che un architetto, agli antipodi di Loos, Antoni Gaudí, fu un cultore dell’architettura greca per la sua «semplicità di forma e di ornamento», e un sagace critico del classicismo: «il Partenone – disse Gaudí – è il frutto della necessità, ma l’Opéra di Parigi ha soltanto una facciata stupidamente sontuosa». E di quell’amore per i Greci Gaudí dette prova nell’uso del dorico per le colonne al Parco Güell a Barcellona, adattate dalla sua intelligenza plastica alle esigenze «espressive» dello spazio costruito (come sempre faceva cambiando direttamente in opera i progetti dei suoi edifici). Ci sarebbe moltissimo da dire su questo libro denso di spunti di riflessione. Si può notare, in conclusione, che la scomparsa degli ordini, e poi il loro ritorno effimero nel Postmoderno degli anni Ottanta e Novanta dopo l’eclisse del modernismo, come è accaduto con la fine delle ideologie, ha lasciato sul terreno un solo vincitore: l’economico-tecnico che si autocelebra nell’immagine verticale dei grattacieli e in una miriade di effetti «di superficie». C’è ancora la misura umana, il modello antropico, alla base dell’architettura di oggi? Forse la crisi dell’architettura, che produce oggi tanta antiarchitettura, sta tutta nella mancata risposta a questa antica domanda.
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