sabato 9 aprile 2016
ARCHITETTURA Progetto d'emancipazione
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È un tema “storico”, ma la morte improvvisa di Zaha Hadid, avvenuta la scorsa settimana, lo ha portato alla ribalta. Esiste in architettura una “questione femminile”. E il fantasma del-l’archistar angloirachena (la prima donna a vincere il Pritzker Prize nel 2004, seguita da Kazuyo Sejima nel 2010 – e sono significativi gli anni così recenti) era una presenza tangibile giovedì sera nella Triennale di Milano, dove si consegnava l’arcVision Prize, riconoscimento istituito da Italcementi per valorizzare il lavoro delle donne in architettura. Il premio, assegnato tra una selezione di venti studi di quattro continenti, è stato vinto dall’americana Jennifer Siegal, con menzioni d’onore a Cazú Zegers (Cile), Pat Hanson (Canada) e Elisa Valero Ramos (Spagna). La cerimonia è stata soprattutto l’occasione per un dibattito sull’architettura femminile tra alcuni dei membri della giuria, composta esclusivamente da donne, in cui sedevano, tra le altre, alcune delle donne più importanti del sistema architettura internazionale come la francese Odile Decq, che in Italia ha firmato il Macro di Roma (negli stessi anni in cui cresceva il Maxxi della Hadid), Yvonne Farrell, fondatrice nel 1977 con Shelley McNamara di Grafton Architects, autrici della nuova Bocconi a Milano, e Martha Thorne, dal 2005 direttore esecutivo del Pritzker Prize.  «Non credo all’esistenze di una architettura “blu” e in una architettura “rosa” – ha detto Yvonne Farrell – Alla base dell’architettura c’è l’immaginazione, e l’immaginazione non ha genere. Noi come architetti abbiamo la responsabilità di fare un mondo bello, per il presente e per i bambini di domani. E più il mondo è costruito, più la responsabilità è grande. Semmai uomini e donne hanno una propria visione del mondo. E le donne penso abbiano un punto di vista più diretto. L’osservazione femminile è uno sguardo adulto sulla realtà. Spesso le donne si fermano fuori dai cancelli, e guardano.  E questo significa avere e dare esperienza ». Odile Decq invita a osservare la «distanza tra la percentuale di studentesse di architettura e di coloro che poi praticano la professione. È impressionante. Nella mia esperienza almeno la metà delle classi sono composte da ragazze, mentre solo il 10% degli studi di architettura è condotto da donne. Con questo premio vogliamo illuminare chi sono, dove sono, e come lavorano bene. I criteri di scelta e valutazione sono stati la qualità del progetto, del risultato e soprattutto della persona. Ma le donne devono avere più coraggio, imparare a incidere nella società, lasciare una loro impronta. È un processo lungo e lento. Scegliere una donna come architetto non è prendere un rischio ma è la possibilità di avere qualcosa di diverso». Cambiare questa situazione per Martha Thorne deve essere un’esigenza del sistema architettura, «altrimenti – dice – la nostra professione non avrà futuro. Essere architetto non aiuta a conciliare la presenza in famiglia. E spesso quando una donna stacca per una maternità fatica a reinserirsi. Il nostro sistema è ancora maschile anche dal punto di vista politico: sono ancora troppe poche ad esempio le donne alla guida di scuole di architettura. Senza parlare della committenza o delle imprese costruttrici. Ma le donne devono partecipare di più: ai premi, alle conferenze, alle associazioni ». Su questo aspetto in particolare ritorna Yvonne Farrell. «Ricordo lunghe discussioni anni fa con Shelley McNamara sulla necessità che hanno le donne di ricevere più sostegno. Ma facevamo finta di non vedere il problema, lavoravamo sodo, cercavamo di fare del nostro meglio. Penso però anche che le donne difettino nella capacità di autopromozione. Siamo più interessate alla comunità che all’individuo. E spesso facciamo un passo indietro piuttosto che uno avanti. Più invecchio più penso che le donne debbano ricevere una spinta per uscire dalla schiera. Una cosa però è necessaria: coinvolgere gli uomini, perché si rendano conto delle difficoltà che incontra una donna nella professione e prendano coscienza dell’assenza di opportunità».
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