venerdì 4 novembre 2011
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I cent’anni di solitudine degli arbitri sono terminati. Il triplice fischio a quell’era un po’ buia, come le vecchie casacche nere (oggi oscillano tra il grigio, il giallo e persino fucsia) dei direttori di gara, lo ha dato il signor Marcello Nicchi di Arezzo, 58 anni, dal marzo 2009 presidente dell’Aia - Associazione italiana arbitri - . «Aria nuova: giovani direttori in campo, tutti possono e devono arbitrare qualsiasi gara, da San Siro a Novara. Ma soprattutto, massima trasparenza, perché noi facciamo cultura, formazione etica e sociale», questo in sintesi il “new deal” nicchiano.Con un manifesto del genere possiamo anche archiviare per sempre la pagina nera degli arbitri coinvolti in Calciopoli.«Sono stanco di rileggere quella pagina lì, anche perché non mi appartiene. E poi nessuno a oggi mi ha saputo spiegare cosa sia realmente accaduto. A me sta a cuore il presente e il futuro dei nostri 35mila arbitri che ogni settimana dirigono 15mila gare sui campi di tutta Italia».Cosa è cambiato in seno al vostro movimento negli ultimi due anni?«Siamo finalmente usciti dalla vecchia cappa di vetro in cui eravamo imprigionati, per aprirci al mondo. Appena eletto il mio primo messaggio è stato: comunicare, comunicare. Dobbiamo fare capire finalmente chi siamo».Risultati di questa apertura epocale?«Il dialogo in campo e fuori è nettamente migliorato. Ora è il momento di invitare tutti quelli che vogliono conoscerci nelle nostre “case”, le 212 sezioni sparse sul territorio nazionale per far comprendere la fatica che facciamo e l’immensa soddisfazione che proviamo nel formare un arbitro».È questa la funzione culturale e sociale a cui accennava?«Io aggiungerei anche quella civica. In un Paese in cui le regole si infrangono facilmente, noi insegniamo prima di tutto a conoscerle e rispettarle. La missione sociale è quella di togliere ogni anno dalla strada 6.500 ragazzi che a 15 anni possono iniziare ad arbitrare».Ma di questi quanti rimangono?«Rispetto al passato la maggior parte non ci abbandonano. Restano con noi, perché sanno che nell’Aia possono avere un futuro, studiare, viaggiare e allargare i loro orizzonti. Se nasci arbitro lo resti per sempre e ti distingui anche nella società».Vuol dire che chi ha arbitrato è anche un modello di cittadino e di professionista nel suo campo?«Sicuramente sì. Non a caso tra gli ex arbitri ci sono ex bancari come me, magistrati, imprenditori, sindaci come quello di Firenze, Matteo Renzi. Ma anche preti, vescovi. Ho conosciuto persino un cardinale che una volta mi disse: “Lo sa che sono stato arbitro in gioventù?”. Aveva arbitrato una sola partita, ma tanto basta per sentirsi arbitri per tutta la vita».Tanti giovani scelgono il fischietto anche per l’ambizione di diventare dei professionisti.«A un ragazzo che accede ai nostri corsi diciamo subito chiaramente: solo qualcuno di voi arriverà in Serie A. Ma tutti potrete restare con noi, perché oltre a chi arriva in alto, c’è bisogno anche di chi apre la porta della sezione, di chi prepara un piatto di pasta per le riunioni settimanali. Dall’esterno tutti commettono l’errore di guardare solo a chi arbitra Juve-Milan, ma vi assicuro che i nostri gioielli sono quelli che dirigono in periferia, nei campi dove ci sono trenta spettatori, quando va bene. È da lì che arriveranno i buoni cittadini e magari anche i Tagliavento di domani».Molti dicono che la tv ha rovinato il calcio.«Sbagliato. La tv ha portato il calcio ovunque e ha una funzione importante, consente di rivedere la “partita reale”. Spesso in campo non ti rendi conto di tanti episodi che poi rivedendoli capita di dire: ma quello che arbitrava ero proprio io?»Autoanalisi da un calcio più sereno.«Per riportare questo sport a una dimensione più umana possibile mancano ancora due elementi fondamentali: il vero fair-play e la giusta conoscenza del regolamento che spesso in campo, certi signori con ingaggi da milioni di euro ignorano completamente. Chi guadagna tanto, ha la responsabilità di ridare indietro altrettanto, specie in termini di esemplarità».Ma sono più i calciatori, gli allenatori o i presidenti ad aizzare la miccia polemica?«Ognuno, quando ci si mette fa la sua parte in negativo. In genere chi fomenta è colui che non conoscendo il regolamento teorizza e pontifica gli “aggiustamenti” delle regole. In occasione del centenario dell’Aia (fondata nel 1911) ristamperemo migliaia di copie del regolamento. Le stesse società l’hanno già prenotato per fornirlo ai loro tesserati».Il dialogo in campo è migliorato, ma i tifosi considerano ancora l’arbitro il “capro espiatorio”...«Vado allo stadio senza scorta e le offese sono sempre più rare, perché il pubblico si concentra sul gioco della loro squadra e la tv lo sta aiutando a capire che il male estremo non è certo l’arbitro. Alla sede dell’Aia arrivano lettere di elogio e molte più testimonianze positive di quanto si possa pensare».Mourinho dinanzi alle decisioni dei nostri arbitri si “ammanettava”. Quanto vi manca lo “Special One”?«A noi non manca affatto, adesso la palla è passata alla Spagna...».Un giudizio sull’attuale squadra dei suoi arbitri.«Non c’è più il fenomeno ed un solo Collina. E questo può essere anche un bene. Ora abbiamo un gruppo di tanti direttori di gara bravi. Sono preparati quanto i calciatori e anzi devono frenarsi, altrimenti correrebbero più veloci del pallone. I nostri 10 internazionali sono motivati a dare sempre il meglio perché sanno che ci sono tanti giovani che stanno crescendo e pronti a subentrare».Rispetto al passato si vedono molti più giovani arbitrare in A.«Oggi infatti è più facile arrivare a trent’anni a dirigere in A, ma è anche possibile lasciarla dopo un paio di stagioni se non si rimane ad altissimo livello. In futuro tendenzialmente abbasseremo ancora l’età “pensionabile”. È finita l’era del “precotto”, l’arbitro che a 48 anni dirigeva la semifinale dei Mondiali».E l’era delle donne arbitro nel calcio che conta quando comincerà?«Silvia Spinelli ha già diretto diverse partite di Lega Pro e poi ci sono due assistenti in A. Qui arbitri donne arriveranno, ma prima servono giovani che abbiano strutture e presenze adeguate per sostenere un impegno fisico e psichico duro come quello della Serie A».L’arbitro un tempo veniva detto anche l’ “uomo nero”, ma come le donne, direttori di gara di colore non si sono ancora visti, mentre si segnalano casi di razzismo.«Ce ne sono già una decina di colore che operano nelle categorie inferiori e che stanno crescendo bene. Presto li vedrete salire di categoria. Se per qualcuno sono un problema, sappiano che dopo qualsiasi episodio di razzismo nei loro confronti, questi ragazzi sono i primi che rimandiamo immediatamente in campo».Gesti forti, come contro i “bestemmiatori”.«Quando ho cominciato nel 1968, già sanzionavo la bestemmia con il rosso e nessuno si azzardava a discutere l’espulsione, anzi erano i giocatori stessi ad autocensurarsi. Poi quella regola è finita nel dimenticatoio, ma due anni fa l’abbiamo rispolverata. Adesso viene applicata con decisione, il rosso per frasi e atteggiamenti blasfemi è punito tassativamente».Lei è uno di quelli che vede nella tecnologia una “mezza punizione” per il calcio.«No, semplicemente non sono per lo stravolgimento del gioco. La moviola in campo è tecnicamente inutilizzabile. E i sensori per svelare 1-2 gol fantasma a stagione, perché quella è la media, mi sembrano uno spreco. Piuttosto che investire milioni in fotocellule, metterei più soldi a disposizione dei vivai delle società e anche per le nostre giovani squadre di arbitri».Chi è stato il suo giocatore modello?«Uno come Gaetano Scirea credo debba ancora nascere. Ma oggi il livello culturale dei calciatori si è alzato e il rapporto tra noi e loro sarà sempre più di qualità».Un bilancio della sua vita da “eterno arbitro”.«Fin qui sono stati 43 anni stupendi e di crescita continua. A volte mi sento un po’ in colpa per aver dedicato più tempo ai miei “figli arbitri” che a mia figlia e a mia moglie. Spero che mi perdonino e che capiscano che l’ho fatto per uno scopo soltanto: veder sorridere tanti giovani che sono il patrimonio del nostro futuro e della nostra società».
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