lunedì 5 ottobre 2009
La città abruzzese non è venuta alla luce come piccolo borgo, cresciuto poi, quasi per inconscia aggregazione, col passare del tempo. Si è affacciata alla storia con precise ambizioni di «civitas», col progetto di diventare grande già appena nata, al tempo di Federico II.
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Definire L’Aquila non è facile. Significa tracciare confini attorno a qualcosa d’indefinibile. Non è solo una città, è qualcos’altro, a cui s’intonerebbe, se non appartenesse già agli Stati Uniti d’America, il motto E pluribus unum, Da molti uno, e non solo con riferimento al singolarissimo progetto fondativo della città, che nasce attorno alla metà del XIII secolo con l’avallo da parte dell’imperatore Federico II di costituire una nuova entità unendo vari castelli, cioè vari nuclei fortificati già esistenti. L’Aquila nasce dunque da un progetto particolare. Non è un abitato che si espande. È una sintesi di più abitati che decidono di convergere in senso centripeto verso un unum tutto da inventare, e non perché manchi loro un’illustre storia. Basti pensare che uno di questi municipia poi fattisi castra era Amiternum, di cui restano imponenti scavi alle porte dell’Aquila, cioè una delle capitali dei Sabini, nominata già all’inizio del III secolo avanti Cristo, al tempo delle guerre sannitiche, quando viene presa dal console Spurio Carvilio. Ci passa Annibale nel 211, negli anni successivi è ricordata per vari contributi a questa o a quella fazione romana, pochi anni dopo diventa prefettura e tale rimane fino al tempo di Augusto, con una certa notorietà, confermatasi nell’86 a.C. soprattutto per aver dato i natali allo storico e politico Caio Sallustio Crispo. Alcuni decenni dopo, Virgilio cita Amiternum nell’Eneide. Ma anche passati quattro secoli e mezzo da allora e caduto l’Impero romano, gli abitati di Foruli, Peltuinum, che saranno tra i principali castelli-gameti dell’Aquila, non scompaiono del tutto, rimangono come nuclei di posta sulle direttrici o sulle diramazioni delle antiche vie consolari, oppure si trasformano in diocesi, dal vasto territorio, come Forcona. Fino a quando, attorno alla metà del XIII secolo, decidono di fondersi in un’unica città. La leggenda vuole che fossero novantanove questi castelli e novantanove, uno meno di cento, diventa il numero magico dell’Aquila. Gli storici, sulla base di dubbie catalogazioni derivate dai documenti, verificano il numero e precisano che forse i castelli non erano novantanove, bensì ottantasei. Oppure ottantotto. Non si accorgono di essere ridicoli. È la straordinaria pluralità a contare, non il numero. Meglio, fermarsi in limine a cento, contenersi, non straripare nelle tre cifre s’intonerebbe benissimo al carattere dell’aquilanità. Portato alla puntualizzazione, alla precisazione, al non-consenso che non sia verificato, divergendo completamente in ciò dalla mercantilità levantina della costa, sfrenata, generosa, duttile, abituata a cercare bonariamente il punto d’incontro. Così nasce L’Aquila, città dalle molte identità. Chi non la ama la definisce, stabilmente nel corso delle generazioni, "chiusa". Chi la ama, guardando il rovescio della medaglia, "fiera". Con tutta la declinazione di corollari conseguenti, sui due filoni: "inospitale", "aristocratica nell’accoglienza"; "ruvida", "materna"; "presuntuosa", "attenta a non far pesare lasua signorilità"; "polemica", "sorridente nel misurarsi con gli altri, come in una lotta giocosa". Contrapporre L’Aquila a Pescara non ha senso, in realtà. È come contrapporre i monti al mare. Non bisogna, tra l’altro, dimenticare che L’Aquila aveva una provincia oggi in buona parte laziale, fino a meno di un secolo fa: l’istituzione della provincia di Rieti a ovest l’ha privata di tutto un retroterra mentre a est, e sull’estraneo mare, nel 1927 le nasceva, strappandole anch’essa territorio, con lacerazione mai perdonata, Pescara. Su una cosa tutti sono d’accordo, anche gli aquilani: la loro città è difficilina di carattere, ma è magica, fascinosissima. Le sue identità molteplici si sono infatti polemicamente sintetizzate in una contiguità territoriale di grande bellezza e armonia. L’Aquila è una città astratta, al di là della drammatica concretezza dei suoi problemi di oggi. Perché L’Aquila è un aggregato umano generato da un’idea. L’Aquila non è venuta alla luce come piccolo borgo, cresciuto poi, quasi per inconscia aggregazione, col passare del tempo. Si è affacciata alla storia con precise ambizioni di civitas, col progetto di diventare grande già appena nata, al tempo di Federico II. E già da quand’è in fasce, attorno alla metà del XIII secolo, qualcosa di strano comincia ad avvolgerla. Lo si coglie nell’atmosfera che vi aleggia. Atmosfera a volte sacrale, a volte pagana. Sacra dai tempi dell’incoronazione nella basilica di Collemaggio, il 29 agosto 1294, dell’eremita Pietro da Morrone, salito al soglio pontificio con il nome di Celestino V, il quale è però un papa… tutto particolare, ritagliato nella roccia, il quale trova più impervio ascendere al trono di Pietro che salire sulle dirupate coste dei monti d’Abruzzo. Prima e dopo Celestino V, comunque, queste terre attirano santi. Sono illuminate da grandi figure, dall’immenso san Francesco d’Assisi al gran predicatore san Bernardino da Siena, dal guerresco san Giovanni da Capestrano al beato Bernardino da Fossa. E altre volte invece L’Aquila, più che santa, è pagana. Cioè impregnata di una religione terrena. Basta percorrerla di notte per capire quanto sia ctonia, misterica, dionisiaca. La luna s’infiltra scintillante nell’acqua della fontana delle Novantanove Cannelle e parla attraverso il loro sciacquìo. Novantanove è il numero dell’esoterismo aquilano. La leggenda vuole nata la città da novantanove chiese, novantanove piazze, novantanove fontane e novantanove castelli.Mentre l’Italia celebra il suo primo ventennio di unità, L’Aquila e la sua provincia vengono attraversati da una nuova esperienza, l’andar per mare, il salire sulle navi, l’imbarcarsi sui bastimenti per l’America sui quali interi nuclei familiari cominciano a trasferirsi nel nuovo mondo. È un flusso emorragico, nel rapporto con la terra, che dura fino al primo conflitto mondiale, per essere soppiantato, nel ’15-’18, da un altro flusso di sangue non solo metaforico: quello della grande mattanza, di cui oggi sbiadite lapidi e monumenti sbreccati, con retoriche iscrizioni, vecchie quasi un secolo, raccontano a noi, all’Aquila e nei dintorni. Migliaia di uomini e ragazzi abruzzesi vengono strappati ai loro affetti e mandati a morire senza sapere dove, senza sapere per cosa. Ventidue anni e la tragedia si ripete. Il Ventennio fascista precipita l’Italia, nel ’40, nella tragedia della Seconda guerra mondiale, che conferma la soggezione alla violenza espropriativa, la non padronanza della propria esistenza. I cimiteri aquilani recano i nomi esotici dei luoghi dove la vita è stata rubata: Nikolaevka in Russia, El Alamein in Africa, Flossenbürg in Germania. Un’esistenza, qui nell’Aquilano, difficile da vivere. Sempre segnata dal duro rapporto con la terra. C’è Silone a raccontare quale fosse la vita dei cafoni della Marsica, nel Ventennio. Le leggi che dopo la guerra frazionano e distribuiscono, non senza scontri, l’immensa superficie del Fucino ai coltivatori diretti non alterano granché la loro condizione. Da salariati divengono affidatari e poi proprietari della terra. Non è poco, ma la zolla, con il suo giogo, è sempre lì, indifferente alle vicende di proprietà, stagione dopo stagione, a esigere il suo tributo. Così greve da far dire ai personaggi di Fontamara: non è vita. Solo l’emigrazione libera, per chi può permettersela, da tutto ciò. Foriera di altri problemi, certo, primo tra tutti quello di un’identità da ricostruire in Paesi dei quali non si conosce la lingua, non si conoscono costumi (e pregiudizi), e non si ha chiara neppure la misura, che s’imparerà a conoscere amaramente con gli anni, del non essere voluti; ma nei quali c’è lavoro, nei quali sbarcano emigranti da ogni parte del mondo, nei quali – soprattutto – c’è la possibilità di procacciarsi l’esistenza senza rompersi il filo della schiena nei campi. Perché questa è stata per millenni la vita dell’aquilano. E alla fine degli anni Cinquanta-Sessanta, ecco la vera grande rivoluzione in situ: l’industrializzazione, l’impiego, il boom economico, gli anni in cui la popolazione dell’Aquilano, conosce, come tante altre realtà d’Italia, una fonte di sussistenza e di modesto benessere che non dipende dalla terra. Inizia l’abbandono delle campagne. Le tecniche e metodologie di lavoro si trasformano, i vecchi ritmi millenari dei lavori nei campi e della cultura della terra diventano proverbi, sempre meno comprensibili, sempre più scollegati dalla nuova realtà, morenti sulle labbra dei vecchi. Sopravvivono lavori particolari, non più legati alla sussistenza, ma al rito da calendario. Settembre vendemmia vinificazione. Novembre olive oleificazione. Gennaio maiale. Marzo primo orzo. Aprile maggio frutta e verdura. Giugno mietitura. Luglio raccolto. La terra non esercita più la sua signoria. È sconfitta. Sono gli anni del grande disamore. Sono gli anni dell’abbandono, dell’allontanamento. La vita, il benessere, la gioventù si sono trasferiti altrove. Campagna equivale ad attaccamento suicida al passato. Ci vorranno venti-venticinque anni perché le cose cambino. E non sarà un ripensamento spontaneo, bensì indotto. Ci vorrà la presa di coscienza del degrado della vita urbana, e tanto più di quella metropolitana, perché coloro che se ne sono andati tornino a dire: non è vita. E, saltato il fragile amore per la città, sognino di tornare ad essa, come a una terra promessa. Ma con un problema nuovo: senza saperci più vivere. Se volete capire cos’è L’Aquila, nelle sue prodigiose tesi, antitesi e sintesi, il consiglio migliore è: fermatevi alla sua soglia. E non perché oggi l’accesso sia inibito dal terremoto. Fermatevi a un passo dalle sue mura, ferite da larghi squarci. Per farvi ammaliare dalla sua bellezza, prima spiatela a distanza. Salite, in un’aurora d’estate o d’autunno, su una delle disabitate alture che la circondano. Guardatela da lassù. Da quella distanza nasconde i guasti del terremoto. Non sembra cambiata. E dite se il velluto delle prime luci del giorno, che trasmutano dal violetto all’indaco al rosa, rendendo visibili le creste dei monti, non è l’esatto opposto del nero della notte, in cui i monti sono ancora immersi. Dite se il primo cinguettio degli uccelli, inneggianti al ritorno della luce come se ogni aurora fosse la creazione del mondo, non è l’esatto opposto del silenzio che ancora avvolge tutto. Dite se le tenebrose sagome dei palazzi e delle chiese, dei conventi e del castello, delle colline e dei monti, non sono l’esatto opposto dello splendore che la luce tra un attimo rivelerà. Riconoscete, allora: non è una città, è un’idea. È una filosofia fatta pietra. È un moto che non si ferma. L’Aquila è una di quelle amanti che, amate, si trasformano e trasformano il loro amante. Conoscete questa terra, soprattutto dopo ch’è stata ferita dal terremoto, venite a incontrarla. Amatela, vedrete come risponderà.
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