sabato 7 settembre 2013
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László Krasznahorkai scrive in una lingua che fa storia a sé, ma non lo considera un limite. «Se tornassi bambino e avessi la possibilità di scegliere la lingua madre, sono sicuro che mi deciderei ancora per l’ungherese - confessa -. È un idioma fragile e ricchissimo, con una sensibilità e una bellezza tutte particolari. E permette di scrivere frasi molto lunghe, proprio come piace a me». Nato nel 1954 a Gyula, nell’Ungheria meridionale, Krasznahorkai va famoso per la complessità ipnotica dei suoi periodi, che possono estendersi per capitoli interi. Nel suo Paese è da tempo considerati fra gli autori più importanti, ma solo ora la sua fama sta finalmente varcando i confini dell’Europa orientale. Merito del poeta George Szirtes, che si è trasformato in traduttore per dare voce inglese alla prosa di Krasznahorkai, e merito, in Italia, dell’editore Zandonai che, dopo aver pubblicato nei mesi scorsi il capolavoro Melancolia della resistenza nella versione di Dora Mészáros e Bruno Ventavoli, annuncia per il 2014 Guerra e guerra. «Un libro a cui tengo molto», sottolinea l’autore, che questa mattina alle 10.30 interviene al Festivaletteratura di Mantova. «Perché non è solo un libro - aggiunge -, ma un progetto più vasto, che dal web arriva a ripercuotersi sulla vita reale. Da sempre sono persuaso che l’arte debba essere vera. Per questo non ama le illusioni del cinema».Eppure lei collabora da anni con il regista Béla Tarr…«Fu lui a cercarmi, nel 1984. Aveva letto in edizione clandestina il mio primo romanzo, Satantango, e voleva trarne un film. All’inizio rifiutai, lui però non è tipo da rassegnarsi. Non solo mi ha convinto, ma siamo diventati amici e adesso tutti i suoi film nascono dal dialogo fra noi due».Fate film che sembrano romanzi, mentre oggi si scrivono romanzi che sembrano film.«Mettiamola così: di questi tempi le librerie sono piene di letture da spiaggia, ottime per l’estate. Il problema è che esistono anche le altre stagioni. Io mi considero uno scrittore per l’autunno e per il primo inverno. Sono affascinato anche dal tema dell’apocalisse, che però è più adatto all’inverno inoltrato».Sono argomenti che sfiorano la teologia, non trova?«Sì, sono questioni religiose. In quanto tali, riguardano tutti gli esseri umani, indipendentemente dal fatto che siano credenti o, come me, non credenti. Prenda la più invernale delle domande, quella sulla morte. Un certo giorno, in un certo momento, la nostra vita finirà, e questo ci obbliga a interrogarci, a chiederci se c’è un senso nell’esistenza, se sia possibile stabilire una connessione fra ogni singolo fatto e la totalità dell’universo. È come avvicinarsi a una cascata nel tentativo di osservare le gocce una per una. Non ci si riesce, ma nonostante questo la cascata è lì, davanti ai nostri occhi».Sta usando il linguaggio dei mistici.«Lei pensa? Mi sto semplicemente interrogando sulla bellezza, che nella sua essenza è un tema religioso. La bellezza delle cose, nelle cose, oltre le cose. Nel prossimo romanzo, che si intitolerà Il mondo va avanti, mi soffermo sulle parole pronunciate dal cosmonauta russo Jurij Gagarin quando per primo ammirò la Terra dallo Spazio».«Non vedo Dio quassù»?«Questa frase fu un’invenzione della propaganda sovietica. Gagarin si espresse in ben altro mondo. Parlò di meraviglia, di un’incredibile bellezza. "Non ci meritiamo tutto questo», concluse».Per lei non dev’essere stato facile vivere in un Paese comunista.«La mia è stata un’esistenza molto appartata, quasi al di fuori della società. Non avevo niente a che vedere con quell’ideologia e quell’ideologia non aveva niente a che vedere con l’ambiente da cui provenivo. In una piccola città come la mia continuava a prevalere un forte sentimento religioso, cattolico. Inizialmente c’era stato il tentativo di trovare un qualche accordo con quello che si presentava come un nuovo umanesimo, ma la realtà si era rivelata troppo cupa, troppa disperata, troppo rozza quanto a elaborazione intellettuale. La libertà promessa dal comunismo era una menzogna che, una volta divenuta evidente, ha eroso il sistema dall’interno».È a causa di questa estraneità che ha trascorso lunghi periodi in Oriente?«A differenza di altri scrittori occidentali, non ho mai subìto la seduzione delle filosofie orientali. Anzi, ho sempre trovato abbastanza ridicoli gli europei che si sforzano di diventare buddhisti vagando da un monastero all’altro. In Giappone sono arrivato quasi per caso e sono rimasto molto impressionato dalla bellezza dei templi shintoisti. Contemplandoli, mi è parso di catturare qualcosa di quel mondo. Ma è qualcosa che tende ad allontanarsi ogni volta che ci si illude di essersi avvicinati a sufficienza. Ovunque nel mondo, so di rimanere un europeo dell’Est».
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