venerdì 4 ottobre 2019
Il direttore d’orchestra ha scelto la monumentale partitura della “Grande messe des morts” per celebrare i 150 anni della morte del compositore e inaugurare la nuova stagione di Santa Cecilia
Il maestro italo-britannico Antonio Pappano

Il maestro italo-britannico Antonio Pappano

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Davanti alla Grande messe des morts di Hector Berlioz «si rimane a bocca aperta. E non per i decibel dei fortissimo che orchestra e coro sono chiamati a fare ripetutamente: lo stupore è per la grandezza di Dio che quelle note raccontano». Un racconto di morte e di dolore, certo, perché modellato sulle parole liturgiche della Messa da Requiem. Intriso, però di speranza «perché nella musica del compositore francese ritrovo una luce capace di consolare» racconta Antonio Pappano che ha scelto la monumentale partitura per inaugurare il 10 ottobre la nuova stagione dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia.

Sul palco l’orchestra e il coro dell’Accademia, il coro del San Carlo di Napoli, la Banda musicale della Polizia di Stato e il tenore Javier Camarena «perché Berlioz voleva nei suoi pezzi sempre più gente, sempre più esecutori, sempre più effetti» racconta il direttore d’orchestra italo-britannico, classe 1959, che con la Grande messe des morts - pagina di raro ascolto, eseguita la prima volta a Parigi nel 1837 - celebra i centocinquant’anni della morte del compositore francese, scomparso a Parigi l’8 marzo 1869. «Quest’anno - racconta il direttore musicale di Santa Cecilia che guida anche il Covent Garden di Londra - con tutto il mondo musicale stiamo festeggiando Berlioz, un autore che ho sempre amato per la teatralità che ha messo in ogni sua partitura, penso alla Damnation de Faust, alla Fantastica, alle Nuits d’été. Ma ogni sua pagina è un affascinante racconto per immagini».

Teatralità, maestro Pappano, che c’è anche in una partitura sacra come la Grande messe des morts?

«Berlioz vuole quattro bande ad abbracciare l’orchestra dove ci sono sedici timpani e tantissimi archi. E poi un coro enorme. Tutto per creare un effetto apocalittico. Ma il suo Requiem ti spiazza perché pur usando lo stesso testo latino messo in musica da Wolfgang Amadeus Mozart o da Giuseppe Verdi arriva ad esiti opposti: dove ti aspetti il forte c’è il piano e viceversa. Effetto sonoro, ma anche effetto drammaturgico per lui che rendeva teatrale ogni nota. Nei passaggi più intimi che invitano alla meditazione, poi, c’è sì in controluce una paura della morte e del giudizio, ma c’è anche l’umiltà di porsi di fronte a Dio con la propria condizione umana di peccatore, affidandosi alla sua misericordia».

Che spiritualità trova in questa pagina che eseguite in una sala da concerto e non in una chiesa all’interno di una liturgia?

«Sono convinto che la spiritualità di una partitura non sia qualcosa di preconfezionato, ma risuoni in modo diverso nell’anima di chi ascolta quelle note. Il mio atteggiamento quando eseguo questa musica - la Grande messe, ma qualsiasi pagina sacra - è lo stesso in una chiesa come in una sala da concerto perché l’importante è la comunità che si crea intorno a quella musica, una comunità fatta da chi esegue e da chi ascolta. Mi affascina l’idea che il popolo si esprima nel canto del coro al quale, in questo caso, Berlioz affida le parole latine del Requiem, parole che risuonano nella liturgia funebre della Chiesa, solenni e terribili nel raccontare il mistero della morte: sul podio, in mezzo ai musicisti e con il pubblico alle spalle, mi sento parte di un universo, di una grande comunità che dice parole antiche con un’energia sempre rinnovata».

Il testo è, appunto, quello della liturgia funebre, ma nella musica di Berlioz c’è una speranza o la morte ha parola definitiva?

«C’è molta speranza, c’è molta luce. Perché la Grande messe è un sublime atto d’amore. Lo sento nel Sanctus, affidato al tenore e al coro femminile, e nell’Agnus Dei finale, vertice di tutta la pagina dove coro e orchestra sono chiamati a ripetere quasi interamente il primo movimento e devono arrivare a quel punto con ancora le energie disponibili, avendole dosate bene lungo tutta l’esecuzione costellata di fortissimi e pianissimi. Questa è la sfida musicale della Grande messe, ma in generale di tutta la musica di Berlioz che nella scrittura vocale, come Beethoven prima di lui, si spinge fino al limite, chiede l’impossibile per creare una tensione tra esecutore e pubblico, un crescendo di emozione che diventa elemento drammaturgico e che in qualche modo è specchio della vita spericolata - chiamiamola così - dell’autore».

Perché celebrarlo a centocinquant’anni dalla morte?

«Perché è stato un rivoluzionario. Dietro la sua scrittura si sente sicuramente Beethoven, è innegabile. Ma allo stesso tempo si resta spiazzati da come la sua scrittura sia già proiettata in avanti: la Fantastica è del 1830 e Beethoven è morto solo tre anni prima, ma sembrano passati decenni perché Berlioz ha una visione del romanticismo - francese e rivoluzionaria, appunto - molto più avanzata di colleghi come Schubert, Schumann, Brahms, ancora legati al mondo tedesco beeethoveniano. In qualsiasi musica Berlioz mette un’elettricità che sorprende, passa da esplosioni fulminanti a momenti di intimità incredibile, racconta una storia con un eclettismo che rispecchia quella che è stata la sua vita e che lo rende unico nell’universo dei compositori».

Quale l’attualità di un autore morto un secolo e mezzo fa?

«Berlioz era un uomo tormentato, pieno di frustrazioni che assumeva anche droghe e che aveva grandi difficoltà nella sua carriera per le incomprensioni che accompagnavano i suoi lavori. Ma ha avuto la perseveranza di non arrendersi, di scrivere sempre, di scrivere tanto arrivando a lasciarci un capolavoro come Les Troyens, opera epica, ma anche umanissima perché capace di raccontare, attraverso il mito, i sentimenti che ancora oggi noi uomini del terzo millennio viviamo quotidianamente».

Sentimenti che ci sono anche nella Grande messe, capolavoro sacro scritto da un non credente. Vengono in mente Giuseppe Verdi e la sua Messa da Requiem.

«I rapporti di Verdi con la religione erano forse più politici perché il compositore non aveva fiducia nelle motivazioni e nelle azioni della Chiesa di allora. Berlioz, invece, sempre interessato drammaturgicamente dai contrasti, avvertiva il fascino del male inteso come l’altro lato delle cose: lo racconta nel personaggio di Méphistophélès della Damnation o nel Sabba della Fantastica. Entrambi, Verdi e Berlioz, mettono in musica il Requiem prendendo strade diverse, ma mettendosi innanzitutto in ascolto del testo e dando una risposta in musica alle provocazioni umane di parole che interrogano ancora oggi: il fatto che hanno ispirato grandi compositori - da Mozart a Britten - è la riprova che hanno in sé qualcosa di grande tanto che, sono convinto, si dovrebbe tornare a scrivere musica su questo testo».

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