lunedì 3 giugno 2013
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Architettura e memoria sono termini che inscindibilmente connotano le condizioni di spazio e quelle di tempo attraverso cui l’architetto è chiamato a operare nell’intento di organizzare lo spazio di vita dell’uomo: il progetto diviene trasformazione sociale e collettiva della natura. Ma nel modificarsi continuo degli equilibri ambientali, fra le esigenze del vivere, l’uomo ricerca una propria armonia, qualcosa che implica la sicurezza del tetto che protegge, ma va anche oltre gli aspetti funzionali per entrare nel territorio del simbolo e della metafora: cerca un significato per il suo abitare. L’architetto è chiamato a far fronte a questo, testimoniando le speranze della contemporaneità nell’intento di riportare il percorso progettuale nell’alveo di una riflessione critica dove incontra anche la memoria, come condizione essenziale per resistere all’appiattimento e alla banalizzazione indotte dalla globalizzazione. Il passato ci permette di accedere al nostro tempo e, interrogandolo, diviene possibile farsi carico della contemporaneità. Louis Kahn suggeriva agli architetti di interpretare “il passato come amico”, perché attraverso la storia, attraverso il significato delle origini, diviene possibile trovare le ragioni del presente. L’architettura parla, rappresenta, esprime: i molti che visitano Venezia non vi cercano i motivi funzionali che sono alla base della sua fondazione, ma la testimonianza che emana dall’estetica della sua civiltà. Qualcosa che è legato alla memoria e all’identità e si muove secondo la logica degli affetti. Anche un territorio già costruito e poi abbandonato costituisce una “storia” infinita dalla quale possiamo attingere i significati delle origini del fare. E oggi è invalsa la ricerca di agglomerati nei quali si riconosce una netta impronta del passato: qualcosa che segna una distanza abissale rispetto al presente globalizzato. Vediamo un luogo quale Civita di Bagnoregio, borgo etrusco posto su un colle tufaceo eroso dalle piogge e dai venti, specie di nido isolato nel tempo passato (che gli è proprio) più che nello spazio (lo si raggiunge facilmente in auto anche se è totalmente pedonalizzato). È un contrappunto all’era presente. Era abbandonato, lo chiamavano “il borgo che muore”, ora diversi intellettuali vi stabiliscono la loro residenza. Si recupera il passato, lo si ritrova con nostalgico affetto, lo si cura, lo si fa rivivere. Certo, vi sono città fantasma che ritornano come nuove e finiscono per interpretare ancora, come in un ruolo teatrale, la vita che ebbero in passato. Ma non è questa la vera vita delle città: esse non sono monumenti. Contengono anche la memoria, ma richiedono di camminare col tempo presente. Recita un aforisma di Karl Kraus: «Ai nostalgici della vecchia Vienna ricordo che anch’essa un tempo fu nuova». Far rivivere una città fantasma richiede di riportarla al tempo presente: con accorte opere di integrazione. Non di relegarla, come uno scenario teatrale, nella sua epoca tramontata.
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