mercoledì 13 novembre 2019
La chiamavano rivoluzione. Portò delitti e sangue nelle strade Un libro di Angelo Picariello racconta il complesso percorso di risanamento condotto da pentiti e famiglie delle vittime
Caterina Saraceni dietro le sbarre durante il processo alle Brigate Rosse per l’omicidio di Massimo D’Antona (Ap/Plinio Lepri)

Caterina Saraceni dietro le sbarre durante il processo alle Brigate Rosse per l’omicidio di Massimo D’Antona (Ap/Plinio Lepri)

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L’autunno caldo del 1969 come "big bang" del fenomeno sociale che vide nascere dalla comune radice della Contestazione i grandi movimenti cattolici e la lotta armata. Da questa riflessione parte il libro di Angelo Picariello Un’azalea in via Fani. Da piazza Fontana a oggi: terroristi, vittime riscatto e riconciliazione, con un’introduzione di Agostino Giovagnoli che anticipiamo qui in parte (San Paolo, pagine 352, euro 25), ricerca curata dall'istituto di studi politici San Pio V. Da una parte la lotta armata figlia dell’ideologia che arriva alla violenza pur di realizzare un progetto politico; dall’altra i movimenti post-conciliari che puntarono al cambiamento del cuore delle persone, senza il quale nessuna rivoluzione potrà mai andare in porto, se non a prezzo della violenza. Il libro è il racconto della riconciliazione avvenuta, per i militanti delle diverse organizzazioni dapprima nei loro cuori e poi con le famiglie delle vittime. Storie di pentiti e dissociati che hanno consentito di superare la "notte della Repubblica" (come la chiamò Sergio Zavoli) per far arrivare ai giovani una pagina poco conosciuta della presenza forte della Chiesa e dell’impegno di uomini delle istituzioni. Così il pensiero di Aldo Moro (l’educatore, l’uomo di Stato, il membro della Costituente che si batté per il principio di uguaglianza e per la finalità rieducativa della pena) si afferma alla fine, in base al principio che il male e la morte non hanno l’ultima parola.

Gli anni di piombo continuano a suscitare interesse e discussioni. Mentre altre vicende di quel periodo o successive sono state dimenticate, il terrorismo italiano degli anni Settanta occupa ancora un posto rilevante nella memoria collettiva. Ma non in modo univoco: non accenna a placarsi la battaglia fra narrazioni contrastanti. La più diffusa è quella del “grande complotto”, mai definita in termini precisi, né fondata su elementi certi. Ispirata dalla cultura del sospetto, mischia colpevoli accertati e mandanti presunti, alleggerisce le responsabilità dei terroristi e carica le istituzioni delle colpe maggiori. Questa indistinta nuvola nera copre il silenzio dei terroristi che non hanno mai raccontato la verità, favorisce un’autoassoluzione collettiva da responsabilità indirette, che pure ci furono, e confonde le idee e i sentimenti di chi è nato dopo. È frequente oggi che agli occhi dei più giovani, cui è arrivata solo qualche frammentaria informazione sugli eventi di allora, i terroristi appaiano circondati da un alone romantico. Come se il terrorismo fosse stata un’occasione mancata per cambiare l’Italia, da ricordare quasi con nostalgia, certo da non ripetere, ma che finisce per giustificare distacco, rassegnazione e passività verso i problemi del presente. Alla luce di tali narrazioni, rivisitare il terrorismo incontrando gli ex-terroristi è sempre rischioso. Può suggerire giustificazioni implicite se non addirittura riabilitazioni surrettizie. È successo più volte e continua a succedere, quando un anniversario o un’inchiesta riportano l’attenzione su quegli eventi: anche solo intervistare queste persone, senza adeguato contraddittorio, in una trasmissione televisiva o in un dibattito pubblico, può essere ambiguo e fuorviante. C’è un solo modo per proporre una narrazione onesta degli anni di piombo: mettersi dalla parte delle vittime, guardando le cose dal loro punto di vista, da quello delle loro famiglie e di quanti gli volevano bene. Tuttavia, non basta, perché interrogarsi sul punto di vista di chi si è reso responsabile di tanta violenza è non solo legittimo, ma anche necessario [...]. Negli anni Settanta c’era un clima ideologico diffuso, peraltro con grandi diversità tra le varianti di destra e di sinistra. C’erano diverse organizzazioni terroristiche più o meno grandi, di cui le Brigate Rosse sono state la più nota. C’erano trame internazionali e deviazioni istituzionali. Ma, soprattutto, c’erano i terroristi. Perché, al di là di molte spiegazioni oggettive, il terrorismo è stata una scelta personale di tanti uomini e donne che hanno creduto di trovarvi una risposta autentica alle domande della loro vita [...]. Come avveniva il salto nella clandestinità? Colpisce il contesto di “normalità” inconsapevole e insensibile in cui sono maturate tante scelte individuali per il terrorismo che, quando sono divenute pubbliche a seguito della notizia di un attentato o di un arresto, hanno colto totalmente di sorpresa familiari e amici [...]. Molti percorsi sono stati tormentati e imprevedibili, assai più di quanto le definizioni giuridiche di “pentito” o “dissociato” possano far pensare. Come il percorso di chi non ha sparato e ucciso quando avrebbe dovuto e forse anche voluto farlo, apparentemente senza un perché, e che da questo suo comportamento inspiegabile anche a se stesso ha cominciato un percorso senza una meta definita a priori. In molti casi, un’evoluzione è iniziata solo dopo l’arresto e la condanna, anche se da qualcuno attesi e quasi desiderati quale liberazione da un destino divenuto implacabile. Per i più, c’è stata una maturazione, a volte individuale e a volte collettiva, man mano che la stagione della lotta armata è apparsa definitivamente conclusa. Non si tratta però di un banale arrendersi ai fatti, che peraltro non c’è stato da parte di tutti. Piuttosto la chiusura di una stagione storica e, contemporaneamente, di una fase della propria vita personale hanno indotto a riprendere in mano i fili spezzati della propria esistenza, a individuare gli errori che avevano spezzato quei fili, a riconoscere apertamente colpe che già pesavano inconsciamente come macigni. Dentro questi percorsi, sorprendentemente, riemergono anche le vittime. Eliminate violentemente dalla scena della loro vita pubblica e privata, hanno continuato a essere silenziosamente presenti nella mente, nel cuore, nella vita dei loro persecutori [...]. C’è chi lamenta che in Italia la stagione del terrorismo non sia mai stata chiusa definitivamente da un grande atto collettivo di pacificazione, sull’esempio delle commissioni per la verità e la riconciliazione in Sudafrica. Ancora oggi l’arresto di un terrorista latitante scatena scontri propagandistici ad alta intensità mediatica. Ma si tratta di operazioni modeste per raccogliere qualche voto in più o per riscaldare qualche esangue emozione politica. La rivoluzione e l’anti-rivoluzione sono da tempo monete fuori corso. Ma in qualsiasi tempo la tentazione della violenza può tornare a presentarsi in politica, seppure in forme diverse, e anche oggi ne avvertiamo la presenza. Sta qui l’attualità degli anni di piombo, al di là delle differenze politico-ideologiche che ce li rendono così lontani.

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