venerdì 28 ottobre 2016
Una ricognizione inedita sulle statue in legno di tema sacro nella Svizzera «lombarda» tra Medioevo e Settecento
L'antica scultura lignea nel Canton Ticino
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I primi secoli cristiani furono un’epoca di diffidenza verso le immagini. Il timore era quello di ridursi come i pagani ad adorare statue come dèi. E siccome la statua, materialmente, prestava più della pittura il fianco a questa accusa, in quanto simulacro umano (oppure idoletto e feticcio), ecco che la scultura pagò per secoli il sospetto che i cristiani fin dall’inizio nutrirono verso le immagini. Credo che questa diffidenza abbia continuato a pesare sulla scultura anche dopo il cammino del cristianesimo verso una teologia dell’immagine, sancita nei suoi capisaldi dal II Concilio di Nicea (con il dissenso dei teologi carolingi espresso subito dopo nei Libri Carolini). Di che grado fosse fin dall’inizio il rifiuto delle statue lo si capisce leggendo un passo del Protrettico ai Greci dove Clemente Alessandrino nel secondo secolo afferma recisamente: «Le statue sono più spregevoli di qualunque essere vivente. E non riesco a comprendere come mai siano state divinizzate le cose insensibili, e compiango come infelici, a causa della loro stoltezza, quelli che cadono in questo errore… Le statue sono brutte, non fanno nulla, non sentono nulla, sono legate, inchiodate, fissate, fuse, limate, segate, levigate, cesellate… I fabbricatori di dèi adorano non gli dèi e i demoni, almeno secondo il mio modo di intendere, ma la terra e l’arte, cioè le statue. La statua è infatti veramente materia morta alla quale ha dato forma la mano dell’artista. Per noi, invece, l’immagine di Dio non è una cosa sensibile, di materia sensibile, ma è cosa intelligibile. Cosa intelligibile, non sensibile, è Dio… La materia ha bisogno sempre dell’arte, Dio non ne ha bisogno…». Ma oggi è proprio grazie alla mano dell’artista che spesso possiamo pensare Dio per immagine ben sapendo che quell’apparenza è soltanto un viatico per superare la nostra limitatezza intellettiva e intuitiva.


Il fatto è che spesso la scultura, in particolare in Italia dove ha regnato a lungo il favore concesso da Leonardo alla pittura in quanto «cosa mentale» (primato incerto nello stesso giudizio del vinciano come hanno fatto notare studi recenti, poiché sembra che in un primo momento Leonardo nel suo Trattato avesse assegnato alla plastica il ruolo di arte maestra), ecco, da noi la scultura è stata studiata e collezionata molto meno della pittura. Così non stupisce che la bellissima mostra allestita dalla Pinacoteca Züst di Rancate, sui Legni preziosi (“Sculture, busti, reliquiari e tabernacoli dal Medioevo al Settecento nel Cantone Ticino”, fino al 22 gennaio 2017), sia composta di sculture lignee in buona parte opere di autori anonimi, di cui ci viene segnalata l’appartenenza stilistica all’area lombardo-milanese, piemontese, svizzera, tedesca, genovese, romagnola (la statua-manichino, costituita da undici pezzi a incastro e “vestita”, che forse raffigura il Beato Angelo Porro dei Servi di Maria che sembra fare un gioco di mani quasi da prestigiatore, potrebbe appunto essere di uno scultore settecentesco romagnolo ed è conservata a Mendrisio nella chiesa di San Giovanni Battista). Alla più vivida tradizione plastica del Seicento lombardo appartiene il ritratto di san Carlo Borromeo, d’impressionante realismo, proveniente dalla chiesa di Santa Maria del Sasso di Morcote: un ritratto che incute quasi timore, poiché fa sentire in ogni tratto somatico la macerazione, l’impietosa lucidità, la rigorosa autorità del Borromeo, spingendosi oltre lo stesso iperrealismo della statuaria del Sacro Monte di Varallo. L’umanità del Santo ci appare totalmente incarnata nella sua immagine, e per questo l’opera esprime alla massima potenza il mistero della consustanzialità fra immagine e prototipo, così come veniva affermata già dalla ritrattistica romana a proposito dell’Imperatore effigiato sulle monete (argomento che poi sant’Atanasio aveva adottato per sostenere la dottrina sull’immagine).

Il curatore della mostra, Edoardo Villata, nel saggio che apre il catalogo (edito da Silvana), mette in chiaro due cose: si tratta di una mostra-ricognizione; secondo, è una mostra che raccoglie solo opere provenienti da luoghi di culto o musei del Cantone Ticino, tranne una scultura di collezione privata, dunque una mostra che si connota per la sua “territorialità”. Mostra-ricognizione perché, intanto, si deve notare – e i primi a esserne coscienti erano i membri del comitato scientifico – «la scarsità di appigli offerti dalla bibliografia specifica esistente», per cui è stato necessario «inseguire i fili di una bibliografia locale dispersa non di rado su sedi minime, ricca magari di dati importanti». Così, l’immagine che fa da bandiera della mostra, il San Giorgio e il drago di Losone (forse non l’opera più alta di questo prezioso insieme, ma soggetta, nell’argomentazione di Lara Calderari, a un cambio di mano rispetto all’attribuzione che se ne dava a Martino Benzoni), è già un caso tipico dell’incertezza che pesa su molte di queste sculture.


Infine, la questione delle radici territoriali: Villata dice che non può essere definita una mostra sulla scultura ticinese in senso stretto, poiché il Canton Ticino è una creazione giuridica del 1803; sarebbe facile mettere in campo l’espressione “terre ticinesi”, come già una precedente mostra sul Rinascimento in questi luoghi, ma costituirebbe una forzatura; dunque, la soluzione riguardo il contesto storico sta nell’assumere come figura giuridica la Diocesi di Lugano, «che ingloba i territori ticinesi fino al 1885 appartenenti alle Diocesi di Milano e Como».


Il lavoro messo in campo dall’équipe scientifica, dunque, traccia soltanto le linee iniziali di una prospettiva di studi in fieri, che accosta opere restaurate in anni recenti o per questa occasione, o per mettere in evidenza la necessità di un prossimo restauro. Ma è l’elemento linguistico quello che più sollecita domande. Come accade con l’enclave “todesca” all’epoca della Riforma esemplificata dalle statue e dai rilievi intagliati nella bottega di Niklaus Weckmann di Ulma nel primo Cinquecento, che maggiormente si distacca dalle altre espressioni lombarde e svizzere, con un segno scheggiato, duro, già espressionista, però mediato da un confronto col realismo lombardo che ne attenua un po’ la struttura antinaturalistica dei panneggi. I secoli medievali sono scanditi da un gruppo di Madonne in trono col Bambino, eseguite fra XII e XIV secolo, dove si alternano valori plastici più essenziali (Madonna di Arogno), altri più classici ed eleganti (Madonna di Ascona e Madonna di Origlio), oppure altri più primitivi e di gusto popolare (Madonna di Olivone), altri ancora più sintetici e già moderni, di una modernità che riporta subito al senso plastico rinascimentale, come nella Madonna di Dalpe, ma che risveglia pensieri che si allungano fino alla forma plastica del Novecento italiano.

Molto dunque da studiare e anche da immaginare. Sicuramente i colori che vediamo in alcune di queste sculture non sono quelli originari. Era una prassi diffusa quella di restaurarle coprendole di colori dai contrasti forti, di ornamenti dorati sgargianti; in qualche caso, resta soltanto il legno scorticato, con rarissime tracce del colore che le rivestiva: gli Angeli reggicero di Giovan Pietro e Giovan Ambrogio De Donati (inizio XVI secolo), autori anche di una splendida statua raffigurante Sant’Ambrogio sontuosamente dorato; la Madonna col Bambino di Origlio o il Crocifisso di Olivone di primo Quattrocento. Il Cristo portacroce, attribuito a Giovanni Battista da Corbetta (1560 c.), conservato nella chiesa di Santa Maria di Loreto a Lugano ed esposto a Rancate senza i due pendent di una Pia donna e di una Nutrice che regge un neonato e allunga l’altra mano nell’atto di saggiare la temperatura dell’acqua per il bagnetto, è opera di notevole senso plastico e architettonico, dove la mancanza del colore ci toglie la possibilità di comprendere il reale impatto iniziale.


Un’ultima notazione sull’allestimento, curato da Mario Botta: l’eleganza delle strutture colorate che creano partiture spaziali sulle quali le opere poggiano e si trovano inquadrate, risulta talvolta fuori contesto e un po’ penalizzante per la completa fruibilità del valore plastico: è il caso appunto del Cristo portacroce che si trova interferito proprio nell’elemento della croce, perdendo così buona parte della sua drammaticità, data appunto dal contrappeso fra la figura del Cristo e lo sbalzo fortissimo della croce che alle spalle dovrebbe spingersi nel vuoto.

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