giovedì 5 febbraio 2009
Il regista Andrzej Wajda: «Raccontare l’eccidio di Katyn era per me un dovere storico e personale: mio padre fu una delle vittime della polizia di Stalin».Dal 13 febbraio arriverà nelle sale italiane il film evento. «In Polonia l’hanno visto oltre 3 milioni di persone.A Mosca dopo la prima proiezione ho capito che una riconciliazione tra i nostri popoli è possibile»
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Tra pochi giorni, il 13 febbraio, arriverà al Festival di Berlino con il suo nuovo film, Tatarak, versione cinematografica del noto dramma polacco dello scrittore Jaro­slaw Jwaszkewicz su una donna di mezza età che combatte contro dolo­rosi ricorsi di una vita e riscopre la for­za dell’amore. Lo stesso giorno però il regista polacco Andrzej Waida si af­faccerà sugli schermi italiani con il film che l’anno scorso commosse il pub­blico della kermesse cinematografica tedesca. Katyn, distribuito nelle no­stre sale dalla Movimento Film, rac­conta infatti una strage occultata per anni, quella di 22mila polacchi uccisi nel 1940 per ordine di Stalin, deciso a decapitare la futura classe dirigente del paese. Tra gli ufficiali dell’esercito sterminati c’era anche il padre del re­gista che con la madre ignorò per an­ni la verità. Quanto c’è nel film, Wajda, della sua personale esperienza? Ho perso mio padre Jakub a 13 anni e sono vissuto con mia madre che lo ha aspettato per tutta la vita, incapace di accettare la verità solo perché il suo nome era scritto in maniera errata nel­la lista dei morti. Non abbiamo mai a­vuto una risposta sul motivo della sua uccisione. Era inevitabile che i miei genitori diventassero personaggi del film, ma volevo che Katyn fosse al tem­po stesso la storia di un dolore indivi­duale e collettivo non politicamente strumentalizzabile. La storia di un cri­mine, ma anche di una menzogna che ancora oggi continua. Gli ufficiali polacchi nel film non han­no cognome. Come mai? Per evitare problemi con i familiari delle vittime. Però ho inserito la figu­ra dell’ufficiale sovietico Popov per di­mostrare che è vero ciò che dice la Bib­bia: basta un solo uomo giusto perché il Signore perdoni a tutti. Perché sono trascorsi tanti anni pri­ma che lei decidesse di raccontare questa pagina di storia così impor­tante? Durante il comunismo l’argomento e­ra tabù. Dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989 e dopo che Gorba­ciov nel 1990 ammise la responsabi­lità dei sovietici nella strage di Katyn è sorto il problema di come mettere in scena una tale mole di documenta­zione improvvisamente disponibile. Nessuno in tanti anni, neanche all’e­stero, aveva mai scritto nulla sull’ar­gomento. Quali materiali ha privilegiato, allo­ra? Ho scelto di ispirarmi al romanzo Po­st mortem di Andrzej Mularczyk e di u­tilizzare i diari dei familiari che aspet­tavano invano il ritorno dei prigionie­ri. Tra queste preziose memorie ci so­no anche quelle di mia madre. L’o­biettivo principale era quello di trova­re la maniera giusta per parlare ai gio­vani che considerano questa storia or­mai lontana. In Polonia il film è stato accolto mol­to bene. Sì, è stato visto da oltre tre milioni di persone. La prima proiezione a Var­savia è stata seguita da un lunghissi­mo, profondo silenzio interrotto solo da chi ha cominciato a pregare per i morti. Il silenzio ha accolto il film an­che a Mosca, poi uno spettatore ha chiesto a tutta la platea di alzarsi in piedi per onorare le vittime di Katyn. In quel momento ho capito perché ho realizzato questo film. Secondo lei. è possibile una riconci­liazione? Credo di si. Durante la Seconda Guer­ra Mondiale i nazisti hanno ucciso sei milioni di polacchi e sembrava im­possibile riaprire il dialogo con i tede­schi. Poi i vescovi polacchi concesse­ro il perdono con una lettera ai vesco­vi tedeschi e i rapporti cominciarono lentamente a migliorare. Non sono af­fatto pessimista, ma lasciarsi il passa­to alle spalle richiede molto impegno.
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