lunedì 8 ottobre 2018
Parla il regista ospite dell’Ente dello Spettacolo a Castiglione Cinema 2018 con "Una storia senza nome" per i 90 anni della “Rivista del Cinematografo”. Premiati Amelio, Barbera e Guanciale
Micaela Ramazzotti e Alessandro Gassmann nel film di Andò “Una storia senza nome”

Micaela Ramazzotti e Alessandro Gassmann nel film di Andò “Una storia senza nome”

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«Dalla religione so di potermi aspettare uno sguardo sul cinema più libero rispetto ad altre ortodossie ». Chiaro e sorprendente Roberto Andò, regista di cinema, teatro e opera oltreché sceneggiatore e scrittore, è stato applaudito a Castiglione del Lago (Perugia) con il suo film Una storia senza nome con Micaela Ramazzotti e Alessandro Gassmann, passato all’ultima Mostra di Venezia ed ora in sala. Ma anche per il suo acuto intervento a Castiglione Cinema 2018, il festival organizzato dalla Fondazione Ente dello Spettacolo in occasione dei 90 della Rivista del Cinematografo, che si è svolto dal 4 al 7 ottobre. Nel frattempo sta lavorando a teatro: il 18 ottobre debutterà al Carcano di Milano con la regia di Bella figura di Yasmina Reza con Anna Foglietta e Paolo Calabresi, e più avanti al Biondo di Palermo con La tempesta di Shakespeare con Renato Carpentieri. Intanto ieri Castiglione Cinema 2018 – RdC Incontra, si è chiuso con la consegna dei riconoscimenti. Il Premio Castiglione Cinema. Il futuro per tradizione è stato conferito al regista Gianni Amelio e ad Alberto Barbera, direttore artistico della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Gianni Amelio nel ricevere il premio ha commentato: «Leggo riviste di cinema da quando avevo dodici anni. La Rivista del Cinematografo la conservo, sempre. Gli attori sono i colori di ogni regista. Se sbaglia a sceglierli, il quadro viene male». Soddisfatto Alberto Barbera: «Un premio che in qualche modo certifica il grande lavoro che stiamo facendo alla Mostra di Venezia. Lo dedico alla grande squadra di professionisti che mi accompagna». Elena Sofia Ricci ha consegnato il Premio Pino Passalacqua, in onore del grande regista, a Lino Guanciale, già alunno del Maestro alla scuola Silvio D’Amico. Lino Guanciale: «Lui mi ha convinto. Potevo diventare un attore. È stato un maestro, e molto di più». Inoltre sono stati proclamati i vincitori del contest Digitali e solidali – L’Italia, rete delle buone notizie, il cui scopo era raccontare le storie di solidarietà e di bene possibili grazie alla rete e al digitale: I cortometraggi possono essere visti, con quelli dei 10 finalisti, sul sito della Fondazione Ente dello Spettacolo.

Il regista: La mia natività rubata? Simbolo della bellezza calpestata

Il regista Robertò Andò, intanto, racconta il suo cinema ad Avvenire.

Roberto Andò, a Castiglione Cinema si svolge anche un seminario sul cinema nell’ora di religione. La settima arte può insegnare dei valori?

«Paradossalmente in un mondo così conformista come il nostro, la religione, come tutto quello che si muove intorno a chi crede, ha un carattere meno ovvio e scontato. Mi aspetto che uno sguardo da quel mondo sul cinema sia più libero di altre ortodossie. In passato ci sono state tante figure di fede che, rispetto al cinema, anche in Italia hanno espresso questa libertà. Piuttosto che avere un atteggiamento censorio, al contrario hanno dato un grande contributo alla settima arte».

Anche nei suoi film è sottesa una corrente di spiritualità. Pensiamo a Le confessioni con Toni Servillo nei panni di un ascetico monaco.

«In tutti i miei film si sente un rapporto con la fede che ha precise radici. Anche nel modo in cui si racconta il male viene fuori: chi crede, ha una visione del male che può essere anche più radicale di chi non crede. Le confessioni è il film in cui in maniera molto diretta ho affrontato il tema della spiritualità come luogo di una libertà totale. Il monaco del film è un militante di questa totale libertà, ha rinunziato a tutto nel nome di un regime radicale di povertà, silenzio, solitudine. A confronto con questo tipo di personaggio alcuni personaggi della politica e dell’economia, in seguito a un suicidio, si trovano a discutere e a ragionare sul senso di una civiltà. Ora siamo immersi in una civiltà totalmente asservita al denaro, anche quella è diventata una teologia ancor più grande, deterministica».

Lo dice anzitutto papa Francesco...

«Il Papa è la personalità che oggi si esprime più chiaramente su questi temi».

In Una storia senza nome invece si parla della Natività del Caravaggio rubata, di cinema e di mafia.

«È un film sul cinema in un momento in cui è apparentemente più fragile perché ha perso una sua centralità. Per chi ha conosciuto le sale affollate, oggi sembrano catacombe vuote. Attraverso la storia dell’ideazione di un film sul furto della Natività, in cui la sceneggiatrice viene affiancata da un misterioso poliziotto in pensione, si vede come il cinema possa avere anche contraccolpi sul reale infastidendo i mafiosi. Il cinema e l’immaginazione portano qualcosa che i dati reali non portano».

Lei racconta anche di una ferita profonda nella sua città.

«Questo quadro è rimasto come l’allegoria di una bellezza calpestata e dileggiata, che ci è stata sottratta. Si pensa alla mafia per i traffici, ma c’è anche questo aspetto che non è per nulla indifferente».

Palermo (dove il 13 ottobre sarà fra gli ospiti dello Sky Arte Festival) è stata capace di riscattarsi ed oggi è capitale della cultura...

«Palermo ha intrapreso un cammino profondo: è stato il centro ideativo della mafia, ma anche il centro della lotta alla mafia con un contributo dei palermitani enorme, se si pensa ai tanti magistrati, poliziotti e persone oneste uccise. Questo ha fatto crescere enormemente il livello di consapevolezza della città. Che non ha risolto i suoi problemi, ma sta cercando una sua dimensione. Il restauro e il risanamento fisico è il primo passo. E come capitale della cultura la forza di Palermo ha sovrastato le opere degli artisti. Si entrava nei palazzi per le esposizioni e si scopriva la bellezza dell’architettura».

A proposito di forza, cosa le ha lasciato l’amicizia con Leonardo Sciascia, che è stato il suo mentore?

«Quello con Sciascia è un rapporto che nel tempo ha tonalità sempre più intense. La sua opera resta viva. Non è uno scrittore che, rispetto alla sua capacità di leggere la realtà, abbia subito un’attenuazione attraverso il tempo. Anzi, oggi lo si riscopre sempre di più. Per me resta un dialogo personale a distanza. Io mi sono inventato questo film, solo dopo mi sono ricordato dell’interesse di Sciascia per La Natività di Caravaggio. E credo che Le confessioni gli sarebbe piaciuto. Il rapporto di Sciascia con la religione era estremamente problematico, di quella problematicità interna di chi ha una grande spiritualità. Fondamentali le sue letture di Graham Greene e di Bernanos».

Lei attraversa opera, teatro, cinema, letteratura...

«La diversità del lavoro la vivo come un poligrafo. Sono dei cantieri diversi, ma è come se si approfondissero cose che hanno un legame molto profondo. È il frutto di una educazione che oggi è molto rara, ma per me naturale, frutto di curiosità artistica. Io mi sono perso nella lettura quando ero ragazzo, ed ho accumulato un patrimonio. Da giovanissimo ho poi incontrato il teatro e mi interessa la musica da sempre. A parte me e Martone, che per me è come un fratello, quasi nessun altro lavora così».

Quindi cosa ci dice dello stato dell’arte in Italia?

«Lo spettacolo è in una fase di transizione profonda, e anche molto penosa. L’autorità culturale non esiste più, l’unica autorità è la vendita, in un’epoca così non ci si aspetta grandi cose. Ed anche nella politica è il momento più basso che abbiamo vissuto da anni. Specie riguardo alla considerazione degli altri e dell’essere umano che viene affrontata in modo spavaldo, in virtù del fatto che la comunicazione diretta di un leader e dei suoi accoliti eccita un vocabolario che oggi domina. A volte pare che la cultura non sappia rispondere con sufficiente grado di contestazione. Ma non si può accettare l’inaccettabile, e questo è il momento di contestare».

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