venerdì 29 dicembre 2017
Al Museo d'arte di Mendrisio una bella rassegna dell'opera del pittore che rinnovò la ricerca artistica svizzera all'inizio del Novecento
Cuno Amiet, “Paradiso” (1894-95, particolare)

Cuno Amiet, “Paradiso” (1894-95, particolare)

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Quando mi trovo di fronte a un pittore che ama la natura così tanto da cercare in essa la metafora del Paradiso senz’ombre, ecco che subito i miei sensi entrano in stato di allerta. Perché in quella ricerca avverto spesso qualcosa di infero. È come se l’artista cercasse il “settimo movimento”, quello circolare, riservato anticamente agli dèi. Matisse che il movimento circolare ha rappresentato nel 1909 con la Danza oggi al MoMA, realizzava in quello spazio mistico, campito solo di tre colori – blu verde e rosa: cielo prato carne – una fuga dalla pesanteur quotidiana.

Cuno Amiet, al quale il Museo d’arte di Mendrisio dedica una splendida retrospettiva, appartiene a questa schiera di pittori, ma dobbiamo essere coscienti che la loro pittura non è un frutto della gioia, piuttosto una sua ricerca, il viatico per liberarsi dalla costrizione impostaci proprio da quella natura di cui la nostra carne è parte sublime. Anche la pittura di Amiet ha qualcosa di panico e di esistenziale al tempo stesso. E il tema della mostra è appunto la ricerca del Paradiso come mistica del colore. Il riferimento di Amiet è Bonnard, e Bonnard respira tutti i vapori della Parigi borghese, orientalista, rivolta verso le altre culture, elegante e prosaica al contempo. È un gigante proprio perché si cala anima e corpo in questa dimensione, ma sa dare alla propria pittura una preziosa sensualità per cui ogni sua opera potrebbe essere una decorazione parietale per la pompeiana Villa dei Misteri. Amiet invece resterà sempre – nonostante i soggiorni a Monaco e a Parigi (come un altro grande svizzero della generazione successiva, Varlin), e poi quello rivelatore a Pont-Aven – un pittore nato nel Canton Soletta, che va incontro alla modernità e cerca di farsi crocevia, come scrive Simone Soldini, di esperienze e linguaggi anche molto diversi fra loro: prossimo ai simbolisti e poi agli espressionisti (quelli della Brücke lo considerarono un «precursore e pioniere»), ma anche alla bellezza sacrale del secessionismo.

Dal divisionismo e il puntinismo, approderà a una pennellata pastosa e forte, come nell’Autoritratto rosa del 1907, fascinoso e inquietante come l’apparizione improvvisa di un volto da uno sciame di scarabei rosa. Un dipinto, questo, che non ha molti riscontri nella pittura di quegli anni e incarna alla perfezione l’idea dell’artista: «L’arte è anzitutto Astrazione», anche quando tiene il punto della realtà oggettiva. L’altro Autoritratto con mela, precedente di pochi anni, essendo del 1902 1903, rappresenta una tappa intermedia verso questa astrazione che tende alla dissoluzione del disegno per farsi sintesi di materia e struttura della pennellata: il bosco sullo sfondo e la figura in primo piano non hanno ancora trovato quell’amalgama che sarà dell’Autoritratto rosa. In definitiva, Amiet è un ritrattista classico, che dipinge pose frontali come in certi modelli arcaici del passato, ma con un senso del colore moderno; però è nel paesaggio che scioglie la propria anima facendone il legante del colore. Già nel precoce Uomo che legge si avverte questa tensione alla struttura del paesaggio, tipica degli anni più maturi: oggettività e astrazione.

Nella Ragazza bretone del 1892, debitrice di Paul Sérusier, come nota Soldini, il colore viene dipinto sia per piccoli tocchi sia a lunghe pennellate verticali sfiorando l’effetto pastello. È il punto di slancio maturo, dove Amiet dà prova di aver capito che cosa vuole, che cosa dev’essere la pittura per lui. La striatura “a pastello” ritorna nelle nature morte dell’ultimo decennio dell’Ottocento, nell’Autoritratto con cappello del 1895, e si disaggrega nei piccoli tocchi di una pittura fatta a tacche di colore, il cui effetto d’insieme è il mosaico cromatico, ma anche la tessitura dell’arazzo come nel Paradiso del 1894-95. Nelle Macchie di sole del 1904 si perde completamente la rilevanza del soggetto e, sebbene ritragga una signora immersa nel bosco, con una miriade di passaggi cromatici e tonali, distanziando l’occhio dal quadro l’immagine esce come un’astratta composizione di colori. Amiet procede da una pittura che conosce e vi innesta il proprio linguaggio “astratto” al punto che Soldini scrive di «un mare di varianti tecnico-stilistiche lungo senttant’anni».

Ancora nel Paradiso del 1958 rielabora una grammatica del colore ricordandosi delle tarde visioni paradisiache di Redon. Anche il parallelismo con Ferdinand Hodler, altro svizzero, un po’ più anziano di Amiet, regge poco. Oltreché impedito dalla loro difficile amicizia, il rapporto crolla come al confronto fra le rocce aspre e scheggiate delle montagne e la leggerezza di un botanico squisito che cerca nei boschi la propria origine. La grandezza di Amiet venne colta già nel 1932 da Henri Focillon che ne scrisse in occasione della personale del pittore alla Galleria Georges Petit di Parigi. In definitiva il Paradiso di Amiet, che secondo Soldini anela a una immagine idilliaca della natura – feconda, generosa, splendente –, in realtà è un Eden nel quale albergano tutte le tensioni del mondo terrestre sia pure sepolte sotto le croste dei ghiacci millenari: come si vede in un quadro enorme esposto al Museo d’Orsay, Paesaggio di neve del 1904. È un vasto paesaggio abbagliante che l’occhio fatica a reggere e dove a stento coglie al centro una figurina d’uomo, uno sciatore, che ha lasciato sulla superficie un solco appena visibile. È la terra desolata di Amiet, il canto di un pittore che cercando le luci più pure del colore, della natura, ne dissimulò sotto il velo della superficie anche tutte le ombre.








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