venerdì 27 ottobre 2017
Siena gli rende omaggio riunendo la maggior parte delle opere mobili che ci ha lasciato. Non fu solo autore degli affreschi del Buon Governo. Per Ghiberti stava accanto a Giotto
Eva, particolare dell'affresco nella lunetta della cappella di S. Galgano a Montesiepi di Ambrogio Lorenzetti

Eva, particolare dell'affresco nella lunetta della cappella di S. Galgano a Montesiepi di Ambrogio Lorenzetti

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Non so se fosse giusto o meno il discorso di Longhi – credo che sbagliasse in realtà –, ma non è questo il punto; conta che inaugurando le pubblicazioni della rivista “Paragone” nel 1950 con un manifesto programmatico di critica d’arte che scardinava d’un colpo ogni pretesa d’accademismo nella più evocativa delle scienze letterarie, il grande studioso nello stilare un’antologia a sostegno delle sue Proposte per una critica d’arte, scrivesse: «Con più grave scandalo, soggiungo che non avrà luogo nell’antologia neppure la celebre descrizione ghibertiana del “Temporale” di Ambrogio Lorenzetti, che non è la descrizione di un dipinto fatto da mano d’uomo, ma solo di un accidente meteorologico esterno».

Ghiberti, lo scultore delle formelle per la porta del Battistero di Firenze e di molte altre cose, scriveva rinverdendo le forme dell’ecfrasi antica. Il modello al quale anche Longhi si rifaceva, sia pure alla sua maniera (ovviamente). Oggi quel “temporale”, con tanto di grandine a pallettoni, una sorta di shrapnel ante litteram, ovvero le moderne bombe a grappolo – non si parla forse nel nostro tempo senza più mezze stagioni di bomba d’acqua per dire di quelle inondazioni piovane che in poco tempo sommergono campagne e città? – che ebbero largo impiego fin dalla guerra americana a Cuba di fine Ottocento con l’assedio di Santiago raccontato da un inviato di guerra che fu anche il padre degli scrittori americani moderni, Frank Norris; ecco, con lo stesso pathos letterario in presa diretta con cui Norris raccontava di quelle esplosioni sul cielo cubano che mietevano molte vite, così Ghiberti si lascia trasportare mentre cerca di restituire l’intensità espressiva di quella pittura che per la prima volta nel Trecento raffigura un evento atmosferico con tale evidenza realistica. Pioggia e grandine («grandine folta in su e’ palvesi») a chicchi grossi come noci, ancora visibili in ciò che resta degli affreschi del 1336 dipinti da Ambrogio Lorenzetti per celebrare il francescano Pietro da Siena e gli altri martiri dell’India, ora esposto insieme alla quasi totalità delle opere mobili del pittore senese a Santa Maria della Scala. Mostra memorabile, necessaria e «senza precedenti», come scrivono nella premessa al catalogo edito da Silvana i curatori Alessandro Bagnoli, Roberto Bartalini e Max Seidel.

Stupisce questo vuoto degli studi su Ambrogio dal momento che all’epoca, cioè in vita, era stimatissimo, assieme al fratello maggiore Pietro, che gli fu, con Simone Martini e Duccio, modello e maestro. Si rimane naturalmente colpiti leggendo che «su Ambrogio Lorenzetti non esiste nemmeno una moderna e affidabile monografia scientifica. Quella di riferimento, opera dell’americano George Rowley, risale infatti al 1958, e già all’uscita da più parti furono messe in luce le sue evidenti pecche». Ragion per cui, et pour cause, i curatori hanno concepito il voluminoso catalogo della mostra anche come una monografia che fa il punto su questo pittore sempre ricordato per gli affreschi del Buon Governo nel Palazzo Pubblico di Siena, opera mirabile e importantissima anche come metafora etico-politica tuttora esemplare. Sarà un caso, un caso provvidenziale certo, ma le date stabiliscono una sorta di passaggio di testimone: Pietro e Ambrogio morirono infatti nella grande peste del 1348, un anno dopo che, in una modesta contrada senese, era venuta alla luce la grande santa della “città prestata”, Caterina da Siena appunto, che quel monito aveva rivolto ai potenti e agli uomini di governo del suo tempo: ricordati che la città non è tua e prima o poi dovrai restituirne le chiavi a un altro che la erediterà e la governerà come tu gliel’hai lasciata. Un monito sul bene comune che dovrebbe essere ricordato spesso ai politici di oggi: il bene comune di cui siete i depositari è a tempo determinato, e i posteri e Dio vi giudicheranno per come l’avete gestito. Giustizia e concordia, a cui temperanza, prudenza e fortezza conferiscono quel senso civile da cui si generano anche pace e magnanimità. Accidenti, che programma di governo anche per oggi, senza bisogno di scomodare ideologie che sono state seppellite dalla storia come le vecchie alcove della borghesia più o meno riformista.

Certamente, come scrivono i curatori, in quest’ottica Ambrogio assurge a figura di «pittore civico », cioè al servizio del Buon Governo senese; ma anche di arte civile. Se Giotto fosse il Dante della pittura, forse Ambrogio potrebbe esserne il Petrarca, ma è soltanto un parallelo in controtendenza (perché il poeta aretino innalzò proprio Simone Martini alla gloria eterna, col consenso un secolo dopo di Pio II, quell’Enea Silvio Piccolomini papa e grande umanista, e poi con la presa d’atto di Vasari, come ci ricorda Roberto Bartalini nel suo saggio). Per Ghiberti non c’era dubbio, invece, che Giotto e Ambrogio fossero i più grandi pittori del Trecento, e che questi avesse addirittura il primato su Simone Martini («a me parve molto miglore Ambruogio Lorenzetti e altrimenti dotto che nessuno degli altri»): era dunque un grande pittore d’«istoria» che già prefigurava l’orizzonte dell’età nuova. Mostra dunque imprescindibile per i materiali che espone e per la forza con cui rivendica la statura artistica di Ambrogio (da oggi forse possiamo scollegarlo dal cognome e chiamarlo, come i grandissimi, soltanto per nome).

Il passaggio dai modelli ancora bizantini della “maniera greca” di Duccio a quelli dove irrompe la realtà e l’umanità che Ambrogio porta di getto nella sua pittura, si può seguire attraverso il tema della Madonna col Bambino che, già dalla tavola del 1319, che risente ancora dell’antica cultura, mette in luce la figura di Gesù che comincia a muoversi dalle pose canoniche e via via si prende le libertà proprie di un infante in braccio alla sua mamma: si aggrappa alle vesti, scalcia, si torce (mordendo un fico, con allusione al destino di Cristo, e quasi volesse svincolarsi dalla presa della madre), allunga la boccuccia e le mani al seno materno (nella Madonna che allatta del Museo Diocesano di Siena, 1325 c.), stringe con la manina un dito della Vergine (tavola degli Uffizi del 1332 c., coi santi Nicola e Proclo) oppure avvicina teneramente la testa a quella della madre in un malinconico presentimento (nella Maestà di Massa Marittima, opera somma, col meraviglioso snodo visivo delle tre virtù teologali sedute sui gradini che sostengono il trono della Vergine, e dove Ambrogio introduce già una idea di “movimento” con gli angeli inginocchiati che agitano nell’aria le luminarie); e ancora il Bambino che si aggrappa al velo della Madonna (che Ambrogio raffigura sempre doppio, come un marchio di fabbrica), nel trittico di San Michele arcangelo che sconfigge il drago di Asciano – uno dei capolavori del colorismo ambrosiano, accanto ai molti saggi di grande decorazione sui fondi oro. Notevole lo sforzo espositivo nel montare in due stanze gli affreschi staccati della cappella di San Galgano a Montesiepi, col confronto fra l’affresco finito e la sinopia dell’Annunciazione: la Vergine nella sinopia sembra quasi ritrarsi intimorita dall’annuncio dell’angelo, e la posa ricorda quella della Madonna nel Giudizio Universale di Michelangelo (che ha precisi riferimenti a modelli classici).


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