venerdì 17 aprile 2009
Il filosofo Michel Serres presenta il suo testamento intellettuale: «Oggi l’intero pianeta è in lotta con la natura: abbiamo bisogno di un trattato di pace»
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«Senza una visione più larga del rapporto fra l’uomo e la natura, non potremo risolvere problemi come la scarsità dell’acqua o la scomparsa delle risorse ittiche nei mari. Accanto alla scienza, occorre anche il patrimonio di altri saperi e forme di conoscenza, come le religioni, il diritto e l’etica». A sostenerlo è Michel Serres, il filosofo francese celebre per le sue riflessioni epistemologiche e sulla storia delle scienze. Negli ultimi anni, la crisi ambientale è divenuta la principale preoccupazione del pensatore, come mostra anche il volume La guerra mondiale, appena edito in Francia da Le Pommier. Un libro dagli spunti molto intimisti che Serres ha presentato come il proprio 'testamento' intellettuale. Professore, cosa l’ha spinta a scrivere un libro tanto autobiografico e personale?«Innanzitutto, il desiderio di tornare sulle questioni ambientali, che avevo già affrontato nel Contratto naturale e nel Male pulito. Si tratta un po’ del seguito, dell’ultimo atto di una trilogia. Al contempo, l’esperienza della guerra è stata decisiva nella mia vita e mi sembrava giusto offrire dei ricordi personali per introdurre il tema della guerra mondiale che viviamo oggi». L’espressione 'guerra mondiale' rischia di disorientare il lettore… «Finora, l’espressione è stata utilizzata per i due grandi conflitti del secolo scorso, anche se non tutti i Paesi vi parteciparono. La guerra di cui parlo è invece quella dell’uomo che si oppone al mondo, o se si vuole alla natura. Essa è mondiale perché interessa ormai l’insieme del pianeta. Eppure, se l’uomo ha bisogno del mondo, il mondo non ha necessariamente bisogno di noi». Lei sottolinea che per comprendere la crisi ambientale contemporanea non è sempre utile riferirsi alla storia. Perché? «Quando ripenso ad esempio al periodo della Seconda guerra mondiale, mi accorgo che la differenza è grande fra la percezione di chi ha conosciuto direttamente quell’epoca e quella di chi ha appreso i fatti indirettamente. Nutro talora dubbi sulla disciplina che si suole chiamare storia e suggerisco che occorre ricercare del senso anche altrove». Cioè anche nelle verità antropologiche contenute in molte narrazioni mitiche, ancestrali o religiose, da Gilgamesh alla Bibbia… «Tendo a prediligere uno sguardo antropologico sulle cose e ho sempre cercato di cogliere le associazioni fra queste narrazioni e le scienze contemporanee. Le scienze dure, come si suol dire, hanno offerto anch’esse una grande narrazione ed è naturale talora percepire dei ponti fra questi mondi solo in apparenza lontani». Perché considera queste narrazioni particolarmente pertinenti a proposito del conflitto odierno fra uomo e natura? «Quando i cambiamenti ecologici sono tanto violenti come quelli che stiamo vivendo attualmente, il nostro sguardo viene spinto a guardare più in profondità in direzione dell’uomo. Per questo, le antiche narrazioni tornano ad apparirci come preziosi strumenti d’interpretazione. Si pensi alla narrazione del diluvio universale, oggi così ricca di suggestioni profonde. Anche Platone o altri pensatori dell’antichità ci parlano spesso in modo preciso del presente. E sono istruttive talora anche narrazioni più recenti. Penso ad esempio ad una favola di La Fontaine che suggerisce come un contadino possa influenzare il clima fino alla propria auto-distruzione». Lei ricorda la sua esperienza giovanile nella Marina francese. L’odierna guerra umana al mondo ricorda ancora quella del capitano Achab? «Come ex uomo di mare, resto sensibile alle metafore e narrazioni marittime. Ma il contesto della guerra che oggi l’uomo conduce contro il mondo è diverso rispetto a quello di Achab. In Moby Dick, la natura è vista soprattutto come un’antagonista, una nemica che si oppone all’uomo. Ma oggi ci rendiamo conto invece che il nostro destino è profondamente legato al trattato di pace, per così dire, che dobbiamo stipulare col mondo». Eppure, viviamo in un’epoca di catastrofi naturali che rischiano di divenire frequenti, almeno secondo certi scienziati… «In questo senso, la lotta dell’uomo con la natura non è terminata, è vero. Non ho mai visto la natura come qualcosa di dolce. Essa è anzi estremamente dura e l’ho sperimentato sulla mia pelle durante una grande tempesta nel Mediterraneo, quando il mio battello fu creduto a lungo disperso. La violenza resta una prerogativa della natura. Ma il punto è che oggi esiste sempre più una sorta di concorrenza portata dalla violenza umana a quella degli elementi. Se occorre un contratto fra l’uomo e il mondo è perché vi è una concorrenza di quest’ordine fra i due termini». Nella ricerca di tale contratto, che ruolo hanno la scienza e la religione? «Le scienze sono un modo di comprendere gli aspetti particolari e isolati delle cose. Le religioni, al di là della questione individuale della fede, ci offrono invece visioni e narrazioni d’insieme. Soprattutto oggi, non si può scartare un termine per privilegiare l’altro. L’uomo filosofo deve tenere tutto con sé. Altrimenti, la nostra comprensione viene amputata». Una curiosità sorprende il lettore del testo in francese: diverse espressioni in italiano… «Provo un affetto particolare, un senso di fraternità verso l’Italia, dove vivono i miei migliori amici. Quand’ero piccolo, mio padre era commerciante di cemento e ricordo ancora che tutti i suoi clienti erano muratori italiani».
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