mercoledì 6 agosto 2014
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Corrado Alvaro, chissà se per sfuggire alla noia e alla stupidità, all’insopportabile retorica dell’Italia di regime, viaggiò molto negli anni ’30, come tanti altri scrittori italiani, e quei suoi inquieti movimenti tradusse in libri pieni d’intelligenza storica e morale, da Viaggio in Turchia (1932) a I maestri del diluvio. Viaggio nella Russia sovietica (1935): i quali, ancora oggi, riservano pagine sorprendenti. Epperò, particolare suggestione continua ad arrivarci dalle pagine, poi da lui raccolte in Calabria (1930) e nell’Itinerario italiano (1933: che Bompiani sta per ristampare nei tascabili), a sancire il ritorno nel paese natale di San Luca, «appisolato sulla schiena d’Aspromonte», con quel monumentale monolite, Pietra Cappa, uno dei più imponenti d’Europa, che oggi è ricordato soltanto come la capitale delle più feroci faide di ’ndrangheta. Sarà forse per questo totemico monolite che Alvaro concepì sempre la pietra come il limite naturale ma catalizzatore del lavoro dell’uomo, delle sue imprese più gloriose: la pietra strappata alla natura, e modellata secondo architetture che differenzieranno il calabrese dal toscano, il siciliano dal piemontese, il campano dal lombardo, impegnati a erigere monumenti che quella stessa natura modificano, diradano, redimono, mentre si va edificando l’Italia delle torri e dei campanili. Dentro un sentimento della vita secondo cui l’artigiano, nell’invenzione delle città, diventa tutt’uno con l’artista, mentre la bellezza si palesa semplicemente come il rovescio della virtù, l’estetica dell’etica. Cosa fosse San Luca – e la Calabria – per Alvaro, che pure resta, a quell’altezza storica, uno dei nostri più sicuri intellettuali europei, lo si capisce bene leggendo ciò che scrisse in Cronaca (o fantasia), pubblicato nel 1934 da Le edizioni d’Italia: «Ognuno di noi vive nel riflesso di quello che fu ragazzo, e avanzando negli anni i ricordi e le impressioni divengono più chiari, escono dai loro nascondigli, il presente si colora del riflesso del passato». E più avanti: «L’infanzia e l’adolescenza, e gran parte della giovinezza sono l’inventario dell’universo, la riserva dei tempi in cui avrà cessato di parlare la fantasia». Infanzia, adolescenza e prima giovinezza, dunque: per un movimento centripeto che ha appunto lì, in quel Sud aspro ed estremo, il suo motore. Ho trovato la citazione in epigrafe al lungo e suggestivo saggio intitolato Alla scoperta del giovane Alvaro, che Vito Teti premette a un volume di sicura importanza filologica. Mi riferisco a Un Paese, appena congedato da Donzelli, che raccoglie, oltre all’eponimo tentativo di romanzo che prepara la decisiva prova di Gente in Aspromonte, gli scritti giovanili inediti, composti tra il 1911 e il 1916, giacenti nel Fondo Lico di Catanzaro, l’archivio di un carissimo compagno di liceo dello scrittore. E cioè: cinque novelle, un dramma e le poesie (precedute, queste ultime, da un opportuno saggio di Pasquale Tuscano). Ha perfettamente ragione Teti quando, di questi scritti, sottolinea già le qualità che fanno di Alvaro uno scrittore-etnografo. Con un’idea dell’Italia, aggiungerei, già matura nell’Itinerario, fondata sulla divaricazione drammatica tra città e campagna. Ancora nel 1937, in risposta su Omnibus a un’inchiesta sulla provincia italiana, poteva dire: «La provincia è la forza dell’Italia». E San Luca, per quell’idea di lavoro come fatica e redenzione, contrapposta agli impieghi facili «dalle mani bianche», che l’inurbamento forzato delle masse contadine meridionali metteva profondamente in crisi, della provincia sembra la quintessenza. Il lavoro, in tal senso, è il punto esatto in cui natura e cultura si fondono e vicendevolmente si trasmutano. Difficile trovare un altro scrittore italiano del Novecento che avverta con questa forza le radici biologiche della civiltà. Prendete le pagine che aprono Itinerario italiano intitolate all’acqua: mentre pensa a San Luca come a un paese che «pensava all’acqua da centinaia d’anni», e nell’inseguire una gente vagabonda alla ricerca di sorgenti, finisce per tracciare una sorta di «archeologia dei paesi assetati».  Siamo immediatamente precipitati nel Sud riarso, più che affamato, che conquistò con fatica i suoi acquedotti e quelle condutture che portarono finalmente nelle case l’acqua corrente: in pagine che si portano sempre dietro, se non il ricordo, almeno il sospetto, sfiancante e febbrile, di una sete atavica. E che ci ricordano, dentro la nostra virtuale e astratta ipermodernità, che cosa potesse significare, per un calabrese di solo settant’anni fa, nel cuore d’una giornata stremata dal sole e dal sudore, l’apparizione stupita, all’incrocio d’una piazza, d’una fontana. (1, continua)
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