domenica 21 febbraio 2010
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Che l’architettura sia più che una singola disciplina è chiaro da sempre. La conoscenza dei materiali è propria della fisica e della chimica, ma il loro uso per la costruzione è proprio dell’architettura che a sua volta si serve del disegno, ma è più del disegno poiché diventa spazio costruito. È arte ed è tecnica: riunisce il trivio e il quadrivio perché non può allontanarsi dalla storia dell’espressione creativa e dell’invenzione, ma nell’attualità si esprime tramite strumentazioni tecnologiche. Un certo grado di sperimentalismo è sempre esistito: ma nell’epoca dominata dagli sviluppi scientifici e dal recente tentativo di ritorno all’interdisciplinarietà, l’architettura, per sua natura incline ad assorbire suggestioni da ogni campo dello scibile, diventa una spugna che si intride degli stimoli più diversi.Già negli anni ’60 gli inglesi di Archigram ci avevano abituati a spericolate proposizioni che assumevano toni fumettistici (mostri meccanici semoventi e abitabili che hanno poi trovato riscontro nelle stazioni spaziali di Guerre stellari, ma forse in parte anche nella vera stazione spaziale internazionale) o fantascientifici e hanno dato luogo più recentemente a concrete proposte di architetture mobili e cangianti: in un’esposizione svoltasi alla Triennale milanese pochi anni or sono, i vecchi Archigram proponevano strumenti d’abitazione nomadici, architetture a mo’ di sacco a pelo, uffici gonfiabili per l’uso di un giorno entro una logica in cui alla firmitas vitruviana si sostituiva decisamente e definitivamente l’immagine di una società in perenne movimento.Oggi una delle frontiere della ricerca scientifica è la connessione tra il mondo della fisica e quello della biologia. Coerentemente, in campo architettonico presso la Bartlett School of Architecture dello University College di Londra si svolgono master e seminari post-laurea in cui si ricercano connessioni tra cibernetica e biologia per individuare proposte progettuali onnicomprensive. La direzione già fu individuata, sempre negli anni ’60, dal noto giapponese Kenzo Tange (tra gli altri): creare architetture che "sappiano" cambiare nel tempo, adattandosi all’evolvere delle necessità.Ma qui, nel laboratorio londinese cui nel 2004 è stato dato il nome di Advanced Virtual and Technological Architecture Research Laboratory (Avatar), la prospettiva si spinge ben oltre.L’obiettivo è di indagare e individuare materiali che mettano assieme «gli ambienti costruito e naturale, in modo tale che l’energia e l’informazione possano fluire liberamente tra l’architettura e la biosfera, come parte di un unico processo», come sostiene Rachel Armstrong, un medico che fa parte del corpo accademico della Bartlett e che persegue in particolare l’idea di arrivare a produrre "protocellule" o, secondo le sue stesse parole, «dei precursori di cellule totalmente sintetiche, costruite in laboratorio e basate sulla chimica complessa degli oli».Perché, e che cosa c’entra questo con l’architettura? Per rendere l’argomentazione della Armstrong in termini coerenti con sviluppi noti a tutti: molti dei materiali che si usano oggi sono il risultato dell’elaborazione naturale, avvenuta nel corso di milioni di anni, di processi viventi. Petrolio e carbone sono il precipitato minerale di animali e foreste esistiti in ere lontane (hanno origine biologica, e per questo quando si riversano dalle petroliere tonnellate di oro nero, sulle prime la fauna e la flora marine colpite ne soffrono, mentre a distanza di qualche mese o anno si sviluppano più rigogliose di prima). Ma anche molti marmi sono aggregazioni di elementi viventi risalenti agli albori dell’evoluzione terrestre. Ora, se possiamo produrre biocombustibili da diverse coltivazioni agricole (in pratica, se possiamo rifornirci di qualcosa di equivalente al petrolio ricavandolo dalle piante), potremo anche individuare cellule viventi capaci di qualcosa di simile ai materiali marmorei. Anzi, si potrà andare oltre: «Le protocellule – insiste la Armstrong – sono programmabili: Martin Hanczyc dell’università della Danimarca meridionale e Takahi Ikegami dell’università di Tokyo hanno progettato sistemi di protocellule capaci di movimento e di sensazione. Alcune specie possono produrre una pelle ben difesa». E qui entra in ballo l’architettura: da tali protocellule potrebbero nascere strutture di tipo corallino che in certe condizioni arriverebbero ad avere prestazioni statiche simili a quelle delle rocce. Dando vita a un nuovo materiale da costruzione che rientra nella logica del vivente: capace cioè di dialogare con l’ambiente tramite il metabolismo. Potrebbero quindi essere dirette a "consumare" anidride carbonica, altri gas-serra e persino le tossine, per produrre invece ossigeno: avrebbero cioè un effetto disinquinante. «Nel prossimo futuro – dice la Armstrong – l’architettura sarà viva. I muri delle case, rivestiti di alghe, potrebbero allora smaltire l’inquinamento e perfino ristrutturarsi da soli grazie all’accelerazione di una reazione chimica». Insomma, la nanoarchitettura salverà le metropoli dallo smog? Si potranno usare batteri bioluminescenti per illuminare e riscaldare le abitazioni?La Armstrong ha esercitato come medico per diversi anni, poi si è data alla fantascienza diventando una scrittrice di successo, quindi è approdata all’insegnamento nella scuola di architettura della Bartlett. L’architettura è un luogo dove realtà e utopia si confondono, almeno in sede accademica (del resto anche il gruppo Archigram era composto da docenti universitari), in una proiezione futuristica che avrebbe fatto impallidire i futuristi. Intanto dai workshop di Avatar, che è diretto dall’architetto Neil Spiller, sono usciti ormai diversi professionisti. Per esempio lo studio Sixteen makers, che ha realizzato diverse architetture somiglianti a installazioni artistiche: un’edicola-rifugio in acciaio per un produttore di quel materiale, «con una forma dialogante con l’intorno», architettura di per sé «classica» nella struttura, ma dalla forma particolarmente tormentata da una grafia senza dubbio influenzata da immagini del mondo sub microscopico o di quello elettronico. E poi una casetta sull’albero (tema su cui molti si stanno cimentando) in legno e fogli di policarbonato; o un’installazione decisamente di tipo artistico: lamine dotate di sensori e microprocessori che sarebbero capaci di interagire col visitatore, cambiando colore.È architettura sperimentale, oppure fantascienza applicata, certamente è un terreno in cui realtà e sogno tendono a confondersi. Ma che sarebbe la vita senza il sogno? E si potrebbe mai progredire, se non si tentasse quel che oggi appare assurdo e lontano dal possibile?
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