domenica 13 giugno 2010
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Il nome, prima di tutto. Perché già in quell’acronimo Alfa, che sta per Anonima Lombarda Fabbrica Automobili, abitano la storia e la nostalgia. Per un grande futuro dietro le spalle, e per quella milanesità ora perduta per sempre. Era solo Alfa, prima ancora che Romeo. Erano cento anni fa esatti quel 24 giugno 1910. E come capita spesso per le grandi imprese e le opere da ricordare, tutto nacque da un fallimento. Intrigante ma anche inevitabile l’idea di costruire automobili nell’Italia che inizia a muoversi sul serio, che si congeda dalla Belle Époque e si prepara all’avventura di Libia. Chi pensava alle quattro ruote al posto delle carrozze a cavalli era ancora un pioniere, assolutamente rintracciabile – anche geograficamente – solo o quasi nelle officine artigianali di Torino e degli immediati dintorni, comunque non oltre il perimetro del futuro triangolo industriale. La Fiat quando nasce l’Alfa, ha già 11 anni, un nome che toglie speranze ad eventuali rivali (Fabbrica Italiana Automobili Torino) e infatti ha già assorbito, o sta per farlo, un buon numero di concorrenti. Milano però non riusciva a stare a guardare. Aveva sperimentato l’idea di un francese, Alexandre Darracq, che aveva scelto di progettare Oltralpe automobili da assemblare poi in altri Paesi. Una grande novità, che ha però ha il difetto di anticipare troppo i tempi. E per questo non funziona. Almeno in Italia, dove la falsa partenza si lascia alle spalle lo stabilimento del Portello, nell’allora periferia milanese, e un gruppo di imprenditori e di maestranze che non ci stanno a dichiararsi sconfitti. Guidati dal cavalier Ugo Stella, in pochi mesi mettono in piedi un progetto in grado di ripagarli della delusione del piano Darracq. Si chiama Alfa il programma, e la prima lettera dell’alfabeto è il simbolo di una nuova vita che si sviluppa. Alfa come Automobile: ma diversa, più veloce, più sportiva. Era quello il Dna che doveva differenziarla. Fu quello lo spirito costruttivo della primogenita, chiamata semplicemente 24 HP. Prestazioni e piacere di guida: costava 12 mila lire, e un anno dopo essere uscita dalla fabbrica vinceva già la prestigiosa Targa Florio. Era l’inizio di un sogno. Rileggerne oggi la storia, cento anni e decine di modelli dopo, magari guardando le linee della nuovissima Giulietta – l’ultima nata di casa Alfa – e tornando col pensiero alle silhouettes delle sue antenate, aiuta a capire. L’evoluzione e la genesi, il senso stretto di una tradizione di sportività, tecnologia ed eleganza. Certo, cento anni adesso sembrano mille. Perché insieme all’Alfa è cambiato il mondo. Suona diversa la sinfonia del motore, come di un altro pianeta pare il ricordo della celebre frase di Henry Ford: «Quando vedo passare per strada un’Alfa Romeo, mi levo il cappello...». Oggi l’Alfa (e non solo lei) ha perso gran parte di quel fascino, inutile nasconderlo, confusa nella massificazione costruttiva e industriale di un settore in crisi, dall’appiattimento delle forme, dallo scopiazzamento delle linee. Ma conforta ugualmente e fa pensare Uma Thurman che nello spot tv della Giulietta cita Shakespeare: «Noi siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni...». Perché forse è solo questo il senso di un futuro più incerto di un glorioso passato: «Senza cuore saremmo solo macchine», recita il frame finale della pubblicità Giulietta. Puntare sul cuore è la missione dell’ultima Alfa, recuperare la passione, quel senso di appartenenza che una volta divideva gli alfisti dal resto degli autisti. In fondo non è un miraggio se, un secolo dopo, viene festeggiata come una giovane centenaria che si appresta a tornare in America, recuperando un mercato inevitabilmente cruciale per il suo destino. Più volte data per spacciata, più volte risorta. L’Alfa che trovò il suo Romeo solo dopo la prima guerra mondiale, ha anche questo nella sua storia. La riconversione a fabbrica di automobili dopo aver risposto all’obbligo siderurgico di assolvere alle commesse militari, e l’incontro con Nicola Romeo, l’imprenditore campano proprietario delle Officine meccaniche meridionali di Pomigliano – altro segno del destino – che ne allunga il nome nel 1919, supera la crisi del primo dopoguerra e riprende il cammino. La neonata Alfa Romeo si scopre elitaria: piccoli numeri e memorabili vittorie in quei rodei che si chiamano Grand Prix e anticipano la futura Formula1: Antonio Ascari, Giuseppe Campari, Nino Farina, Manuel Fangio, Enzo Ferrari e Tazio Nuvolari. Piloti mitici, storie gloriose di curve, circuiti, occhialoni e polvere. L’Alfa Romeo in pista e su strada conquista tutti i trofei, dalla Mille Miglia ai campionati del mondo. Sono gli anni d’oro che anticipano il declino, quando altri marchi crescono, e la concorrenza diventa spietata. È Giuseppe Luraghi, direttore generale di Finmeccanica, a salvare l’Alfa Romeo in crisi facendone nel 1933 la prima azienda automobilistica italiana partecipata dallo Stato attraverso l’Iri. Negli anni ruggenti dell’Eni di Enrico Mattei sembra un’idea eccellente. E anche un modo per «diversificare» rispetto ai signori di Torino che fanno, da privati, lo stesso mestiere. Senza avvicinarsi a quelli di Fiat, i numeri dell’Alfa cominciarono ad avere un certo peso, soprattutto grazie alla volontà di trasferire l’originaria e mai perduta sportività alle vetture di serie. Viene così costruita la nuova sede di Arese, gioiello produttivo degli Anni Sessanta, e il circuito di prova di Balocco. E l’Alfa sbarca in Sud America. Arriva la prima Giulietta e poi l’Alfasud (1972), modello che segna l’inizio dell’abbandono della dimensione elitaria, croce e delizia della sua storia. Poi l’alleanza con Nissan, da cui nasce l’Arna, una vettura «povera» che non sfonda e accentua la crisi che porterà nel 1986 al passaggio della società sotto l’ombrello Fiat. Un’annessione che fece discutere, per molti l’inizio della fine. Di certo la Fiat di Romiti e Ghidella si sbarazzava così dell’ultimo avversario domestico annettendo un marchio di lusso, forse già svalutato, ma ancora in grado di brillare. Da allora l’Alfa Romeo ha vissuto alterne fortune, sfornando modelli che ha scelto di chiamare con numeri (dalla 164 alla 156), alcuni molto riusciti, altri meno. E alla fine ha perso la sua anima vera, la milanesità, ancora oggi rimasta solo nel marchio costituito da due simboli meneghini: il serpente visconteo in campo azzurro (idea che – si dice – venne a un giovane disegnatore dell’Ufficio Tecnico, osservando il biscione sulla torre del Filarete, mentre aspettava il tram a Piazza Castello) e la croce rossa in campo bianco, racchiusi in un cerchio metallico e separati da due nodi sabaudi. Il 30 ottobre 2009 Fiat ha comunicato la chiusura dello stabilimento di Arese, del Centro Stile, dei reparti Powertrain di progettazione e sperimentazione motori e il trasferimento degli stessi a Torino. Le ultime vetture disegnate alle porte di Milano sono state la MiTo e la Giulietta, affascinante e definitiva scommessa di un marchio che chiede di tornare a contare davvero. Perché storia e nostalgia, da sole non bastano più.
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