martedì 10 marzo 2020
Da subito il futuro statista rivelò statura e carattere, spirito anti-ideologico e un realismo che rispettava il mondo, cambiandolo
Lo statista Aldo Moro (Maglie 1916 - Roma 1978)

Lo statista Aldo Moro (Maglie 1916 - Roma 1978)

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Moro è l’unico statista del Novecento che abbia la forza di suscitare per memoria una sembianza di estasi intellettuale. È stato giovane come tutti, come pochi lo è stato nell’animo di politico, in sintonia con l’essere autentico democratico e autentico cristiano, fino al compiersi della sua giornata terrena. Non ha dato un pensiero alla Dc, ma ha fatto della Dc un pensiero che sopravvive alla scomparsa del corpo politico democristiano. Nel prendersi carico della realtà, vedendo in essa la perenne dinamica del cambiamento, ha disapplicato la grammatica dell’ideologia. Il moroteismo è l’esperienza dell’equilibrio, la sua celebrazione concettuale, allegoricamente il suo motore di ricerca.

Ogni programma, se ambisce a diventare fatto politico, deve mirare alla ricerca del fecondo motivo di conciliazione tra principi, opportunità e consenso. Da ciò l’impegno a tenere insieme identità e mediazione, autonomia e confronto, l’essere in sé e l’essere per il mondo: orizzonte, tutto questo, di una politica pervasa di autentica cultura delle alleanze. Cresciuto in un contesto che recava in grembo il de profundis della Patria, ha resistito all’impulso della recriminazione. Infatti, quando il tempo della gioventù era appesantito dal dolore, con la speranza bisognosa essa stessa di speranza, il giovane Moro non cedeva alla tentazione di commiserare un’Italia in ginocchio, prostrata dalla dittatura e dalla guerra, umiliata nella sconfitta provvidenziale del sogno imperiale fascista.

Quel tempo occorreva amarlo, anche se le difficoltà erano tante – per tante ragioni – e ancora, in quella notte della Patria, la fiammella della rinascita appariva fioca. Talvolta si reagisce all’infelicità dell’epoca attraverso l’approdo a una condizione di riserbo interiore, finendo per scrutare il presente con il biasimo che nasce dal pessimismo dell’intelligenza. Invece nella fede di un uomo colto e sensibile, attratto ma respinto dalla politica, rifulgeva la vocazione a rispettare la realtà del mondo, senza vietarsi il diritto a cambiarla.

Stupisce questa fermezza, non risponde a un criterio normale per la mentalità di persone oggi disabituate, in rapporto all’amore, a contemplarne il momento del sacrificio. Sta qui la chiave di volta del realismo di Moro, il suo aggredire con passione e discernimento la verità del presente, la sua disposizione a piegarsi sulle incombenze della società, a farlo guardando in avanti, verso il futuro. Cosicché resta un messaggio da non disperdere, riassunto in un’affermazione stimolante: «Si tratta di vivere il tempo che ci è stato dato con le sue difficoltà».

Emerge dagli scritti giovanili di Moro, in concomitanza dell’impetuoso procedere verso il ripristino della pace e la costruzione di un nuovo ordine mondiale, il fascino di una costante interrogazione sulla vita e sulla politica. Si nota altresì la propensione a incentrare la lotta sulla necessità del rispetto per le istituzioni. Anche quando alza la bandiera dell’opposizione, Moro esclude in radice l’antico pregiudizio antistatuale che aveva condotto i cattolici intransigenti, dopo Porta Pia e prima della fondazione del Partito popolare di Sturzo, a giustapporre nella loro spinta polemica antisabauda il “Paese reale” al “Paese legale”. Semmai l’orizzonte di Moro accoglie la sfida di un qualcosa che va oltre la politica e lo Stato, giacché per lui conta di più l’umanità, ovvero la persona nella dimensione della sua comunità. Conta di più la libertà se non dimentica la verità, quindi se supera, attraverso questa combinazione, la dialettica disgregatrice che informa la filosofia dell’individualismo liberale.

Si scopre pertanto, ad ogni passaggio cruciale delle sue dense e puntuali osservazioni critiche, quanto sia vivo il senso delle istituzioni. Sarà insomma questa profonda convinzione democratica, forgiata nell’altoforno dell’Italia postfascista, a rendere altamente produttivo il contributo che insieme ad altri e sotto la regia di Giuseppe Dossetti seppe dare ai lavori della Costituente.

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