mercoledì 27 febbraio 2019
Il 28enne cantautore romano esce con un nuovo album, “Niente di me”, in cui si conferma un talento assoluto del soul-pop italiano: «Per arrivare lontano servono preparazione e sacrificio»
Il cantautore romano Arnaldo Sartorio, in arte Ainé

Il cantautore romano Arnaldo Sartorio, in arte Ainé

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Può darsi vi suonerà esagerato definire il 28enne romano Arnaldo Santoro in arte Ainé il Curtis Mayfield italiano del Duemila. Però di certo capita di rado, per non dire mai, di ascoltare un album italiano così ben immerso, come il suo Niente di me, nell’eleganza ora ballabile ora tesa di un soul-pop degno del grande cantante e compositore di Chicago che fra anni Sessanta e Settanta ha rifondato nonché ispessito r’n’b e soul dagli Usa in poi: screziandoli di funk, e rendendone le canzoni portatrici di messaggi etico-sociali contro la droga e così via.

Il “quasi-Curtis Mayfield” nostrano, Ainé, di strada certo ne deve fare ancora, e qua e là difatti scivola sul ballabile modaiolo o sul pop melodico: però, mescendo soul (e buon pop) col linguaggio a noi contemporaneo dell’hip-hop, nel disco sfiora soprattutto quanto spesso un cantautorato soul garbato, fatto di atmosfere di tendenza però molto più adulte della media, groove pesanti o tosti tiri ritmici che fanno intrigante corollario a strutture di fragrante lievità o aperture melodiche di livello; ed inoltre osa qua e là anche i valori dell’uomo nei testi.

Così che suoi brani come Fatti così, l’originale Mostri, Resta con me, l’elegante Ormai o l’adulta Il corpo che si muove danno seguito al suo debutto del 2016 e a un Extended Play del 2017 iniziando a formarne un canzoniere davvero promettente, capace di dire delle nuove generazioni con un linguaggio sin troppo poco praticato in Italia stando però lontano da imitazioni appiccicaticce del sound Usa; e questo, va aggiunto, senza dimenticare di sottolinearne una voce dalle tante sfumature, molto intrigante sugli alti, che il ragazzo usa con sapienza ritmica facendola scivolare sulle partiture. Insomma, forse non è ancora il Curtis Mayfield d’Italia, Ainé: ma crediamo che probabilmente a Mayfield Ainé sarebbe piaciuto assai.

Rispetto al debutto da indipendente con l’album Generation one, e al suo primo EP Uni-Verso con una major come la Universal, lei in Niente di me ha deciso di esporsi scrivendo tutto in prima persona, musica e testi: di cosa va più orgoglioso, ora che ha il disco in mano?

«A livello di brani sono orgoglioso soprattutto di Ormai, che ho scritto per una persona cara mancata un anno fa, e della title track in cui sfogo la mia visione per una rivoluzione del mondo che ci sta attorno. Ma in generale sono soddisfatto di tutto: penso di aver vinto la sfida del mettermi in gioco ed è bello riuscire a esternare in musica la mia voglia di cambiare».

A che cosa ha rinunciato, rispetto ai suoi primi passi musicali?

«A nulla, penso: ho vissuto tutto come una naturale crescita, nonché come il frutto di due anni di lavoro sul mio sound. Essendo giovane, penso sia normale io cambi molto in fretta».

Certo però incuriosisce, la sua voglia, spesso anche cantata, di esprimersi creando canzoni e album mentre proprio la sua generazione non vive più la musica e i dischi come oggetti di valore, né tantomeno come elementi della nostra cultura…

«Vero, ma la colpa è degli artisti, non dei ragazzi! Sono coloro che fanno brutta musica, a far passare piano piano nella società come normale un’involuzione del far musica stesso: riuscendovi specie fra chi non è musicista o addetto ai lavori. L’impoverimento però non dipende dai giovani, bensì dai troppi che mettono in giro roba fatta male. E io resto ottimista, perché la mia generazione nonostante tutto cerca ancora il bello: vedo che in tanti lo vogliono trovare╗.

È difficile fare soul e hip hop dentro l’industria italiana?

«Non dovrebbe perché è musica assolutamente fruibile, non è difficile. Certo solo di recente aumentano passaggi radio e streaming, è vero: io però sento questa musica dentro».

Lei tra l’altro fa hip hop “educato”, anzi definisce questo il vero hip hop. Cosa dobbiamo pensare allora di certi artisti americani e nostrani e dei loro testi zeppi di violenza verbale?

«Ci sono due tipi di hip hop e rap in America, quello legato a jazz e soul, morbido, e il cosiddetto “gangsta” (violento e spesso omofobo, parla di sesso o armi ed è legato alle gang di strada, ndr). Ma anche in quest’ultimo genere oggi non tutto è incitamento alla violenza e alla droga, e anzi ultimamente chi punta solo su quei temi sta venendo messo in secondo piano. La gente si stanca o si stancherà presto di certi linguaggi, come ho fatto io: sono nauseanti».

Lei ha studiato alla Venice Voice Academy di Los Angeles e ha vinto una borsa di studio del Berklee College of Music di Boston, unico cantante europeo a riuscirvi, che l’ha portata ad esibirsi anche prima di artisti del calibro del pianista Robert Glasper in importanti festival. Cosa ha imparato, negli States?

«Un’attenzione diversa all’arte: anche lì ci sono aspetti negativi, però fuori dal nostro Paese l’arte è al primo posto, dai programmi politici alle abitudini dei bambini che da subito percepiscono cose come la musica come qualcosa di serio. Purtroppo c’è meno rispetto, da noi, per chi fa arte».

Parla e canta molto di studio e sacrificio: cosa sono per lei?

«I fondamenti del far bene un mestiere. Aver talento è importante, ma non conduce da nessuna parte se una tecnica appresa nello studio e delle esperienze maturate sul campo non lo supportano. Soprattutto se vuoi arrivare a un certo livello, non ci arriverai mai senza preparazione e sacrificio».

Quali sono i messaggi della musica di Ainé?

«La libertà, anzitutto. E comunque messaggi positivi, sempre. Perché se puoi essere seguito da adolescenti, magari anche da bambini, hai il dovere di dare un buon esempio. Io sono stato cresciuto così, almeno: e guardi, sono sicuro che arrivi anche meglio a un grande pubblico, se proponi solo cose positive».

Dal 27, nella sua Roma, lei sarà in tour: in marzo toccherà Parma, Torino, Bologna, Milano, Vicenza, Genova, Pisa, Terlizzi, Avellino e Foggia. Ma come? Il disco l’ha registrato con la band, senza computer, conferma questa strada?

«Sì, in in tour andrò con la mia band di cinque elementi e pochissime saranno le sequenze digitali aggiunte al live vero e proprio: non farò nemmeno tanti pezzi del primo disco o dell’EP Uni-Verso, perché voglio soprattutto far sentire alla gente questo album e questo mio nuovo sound».

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