Il libro non è propriamente un romanzo, però ha una storia romanzesca. Rimasto inedito per quasi quarant’anni, è riaffiorato grazie al fratello dell’autore, che ha pensato bene di spedirlo a un concorso per racconti. Pur non essendo premiato, il manoscritto ha riscosso l’interesse dei giurati, che si sono spesi per la pubblicazione. E così adesso, all’età di 78 anni, il pakistano Jamil Ahmad si trova nella condizione di tardivo e apprezzatissimo esordiente. Anche in Italia, dove il suo
L’acqua più dolce del mondo è pubblicato da Bollati Boringhieri nella traduzione di Aurelia Martelli (pagine 164, euro 15,50). Non un romanzo, appunto, ma tante storie legate tra loro dalla presenza di Tor Baz, un personaggio che può sembrare una versione riveduta del Kim di Kipling: rimasto orfano da bambino, per il resto della vita si muove nella regione del cosiddetto Grande Gioco asiatico. Senza mai dare grande grande prova di eroismo e arrangiandosi al contrario con una varietà di stratagemmi. Nel frattempo (siamo tra gli anni Sessanta e i Settanta) l’area di confine tra Pakistan, Afghanistan e Iran è attraversata da trasformazioni profonde e le millenarie culture tribali stanno cedendo il passo a una modernità concitata e imperfetta. È il fenomeno di cui lo stesso Ahmad è stato testimone in quel periodo, durante il quale ha servito nella regione come funzionario governativo. «Nonostante tutto, avevo un po’ di tempo a disposizione e così provai a mettere a frutto il mio amore per la scrittura – racconta al telefono dalla sua casa di Islamabad –. A dire la verità avevo iniziato con la poesia, ma il risultato non era granché. Fu mia moglie a suggerirmi di provare a fissare sulla carta gli avvenimenti di cui ero testimone. È nato così il personaggio di Tor Baz, “il falco nero”, dietro le cui vicende picaresche si nasconde qualcosa che mi sta molto a cuore, e cioè la condizione di sopravvissuto».
A che cosa? Alla morte dei genitori?«Certo, ma più che altro al dissolversi della tradizione tribale in cui è nato e che sta lentamente scomparendo attorno a lui. Vede, in Occidente forse si ha l’impressione che questa sia una parte di mondo fuori dal tempo, fuori dalla storia, ma la verità è che da quando il libro è stato scritto a oggi si sono verificate trasformazioni radicali. Un sistema di vita che appariva intangibile è stato ormai danneggiato in modo irreparabile».
E questo è un bene o un male?«Non dobbiamo dimenticare che la struttura tribale è la più antica tra le forme di convivenza umana. E, per quanto mi riguarda, è degna del massimo rispetto. So che gode di cattiva reputazione e che ovunque nel mondo, dall’Africa all’America latina, si sta rapidamente estinguendo. Ma questo non rappresenta sempre un progresso, Anzi, in molte regioni il venir meno delle regole tribali non ha fatto altro che peggiorare la situazione».
Ne è proprio sicuro?«La mia esperienza, basata su una lunga frequentazione delle regioni descritte nel libro, è che in ciascun essere umano, non importa quanto civilizzato, sopravviva una sorta di gene tribale. Si tratta di qualcosa che riguarda il nostro più remoto passato comune e che riemerge anche nelle questioni più controverse, come quella della condizione femminile. Per quanto possano risultare incomprensibili rispetto alla mentalità attuale, le regole tribali costituivano una forma di tutela. Ora che quelle leggi sono cadute in disuso, le donne si trovano esposte a pratiche di sfruttamento perfino più crudeli».
È una questione soltanto locale oppure questo processo incide anche sulla situazione internazionale?«Quest’area ha sempre rivestito un ruolo particolarmente significativo per i destini del mondo. Penso alla vicinanza con una grande potenza come la Russia, rispetto alla quale le tribù hanno svolto nei secoli un’importante funzione di contrasto. Del resto, basta considerare quello che è accaduto in Afghanistan, un Paese nel quale il sistema tribale è ancora in vigore, almeno in parte, ma nel quale i talebani hanno messo a morte centinaia di capitribù, che con la loro presenza avevano garantito un equilibrio antichissimo. I confini che oggi consideriamo inviolabili risalgono solo a pochi secoli fa: prima che le nazioni fossero fissate sulla carta geografica, il compito di preservare l’ordine apparteneva alle tribù».
Sta lavorando a un nuovo libro?«Mi piacerebbe , ma sono un uomo molto anziano e devo fare i conti con le mie energie. Quella che con il tempo non è venuta meno è la passione per la letteratura, che mi è stata trasmessa dagli insegnanti della scuola cattolica che ho frequentato da ragazzo in India. Vede, io sono musulmano, però ho studiato dai gesuiti, grazie a loro ho imparato il latino e ho iniziato ad amare la lettura. Ricordo con grande gratitudine quegli insegnanti, che mi hanno accompagnato in quegli anni così decisivi per la mia formazione».