giovedì 4 aprile 2019
Lo studioso dei totalitarismi e del Novecento nota che «dell’“homo novus” oggi non c’è più traccia Certo, la rottura col passato costituisce uno slogan ricorrente
«Dall'homo novus alla grande recita chiamata democrazia»
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C’è molta Bibbia nella storia dell’utopia e c’è molto cristianesimo nella figura dell’“uomo nuovo”, al quale viene spesso affidato il compito di rifondare la società. A ricordarlo è Emilio Gentile, uno dei più importanti studiosi internazionali nel campo del rapporto fra politica e religione. Autore di saggi fondamentali sui totalitarismi novecenteschi, Gentile ha sempre saputo tenere vivo il legame tra ricerca accademica e questioni di attualità, come testimoniano anche i suoi ultimi libri, da Il capo e la folla (2016), che mette a tema le derive della «democrazia recitativa », ad Ascesa e declino dell’Europa nel mondo (2018), dove si insiste sul discrimine segnato dalla Grande Guerra, fino al recentissimo Chi è fascista (Laterza, pagine 128, euro 13,00). Nei prossimi giorni Gentile sarà a Genova per partecipare al festival “La Storia in piazza”, dedicato quest’anno alle alterne vicende dell’utopia. Nelle quali rientra appunto il mito dell’“uomo nuovo”: «Che è nozione ben diversa rispetto all’homo novus dell’epoca romana» avverte il professore.

In che cosa consiste la differenza?

Nella visione complessiva della storia e del mondo. Per l’antichità il modello di perfezione al quale attingere è rappresentato dalla cosiddetta 'età dell’oro', un passato originario che si tenta di ripristinare. Distinti dalla nobiltà per nascita, gli homines novi della Roma repubblicana introducono una discontinuità, ma non sono portatori di un messaggio di rinascita. Perché ciò accada bisogna attendere il cristianesimo, che introduce il concetto di metànoia, una conversione interiore che è rigenerazione e rinascita. Da qui in poi si guarda al futuro, l’uomo nuovo assume la fisionomia del nuovo Adamo e la Gerusalemme Celeste diventa la meta alla quale tendere».

Dal giardino dell’Eden si passa all’Apocalisse, dunque?

Nell’Antico Testamento sono già presenti molti elementi caratteristici dell’utopia, a partire dall’idea del popolo eletto incaricato di portare a compimento il disegno della Storia. Sono però i Vangeli a segnare una svolta, insieme con gli Atti degli Apostoli, che forniscono l’immagine esemplare della comunità, e certamente con l’Apocalisse, il libro della catastrofe e della rivelazione. Tratti non troppo accentuati in ambito cattolico (prima ancora di ogni attesa millenarista, per la Chiesa il battezzato è già l’uomo nuovo), ma che diventano evidenti se ci si sposta nell’area protestante e in particolare nel puritanesimo anglosassone.

Ma 'uomo nuovo' non è anche il Principe di Machiavelli?

Di Machiavelli, non del machiavellismo. Nella sua concezione più autentica, il Principe assume su di sé la funzione di salvatore, ma tocca poi alla società amministrarsi secondo leggi giuste e buoni costumi. È un discrimine decisivo, che ci aiuta a diffidare di quanti, nella fase attuale, fanno uso degli strumenti della democrazia per rinnegarne gli ideali.

È la trappola della democrazia recitativa?

Esattamente. Nella quale, se si osserva con attenzione, dell’uomo nuovo non c’è più traccia. Certo, la rottura con il passato costituisce uno slogan ricorrente e il leader stesso ama presentarsi in polemica rispetto ai predecessori, ma in definitiva i suoi programmi lasciano pochissimo spazio al futuro. In compenso, agisce una gran nostalgia per un passato più o meno immaginario. Il vero rischio, in tutto questo, sta nel rinnegare la sostanza della democrazia per accontentarsi di una parvenza. O di una recita, se si preferisce.

E la sostanza qual è?

Il progetto di una società di liberi ed eguali, all’interno della quale tutti cooperino per rimuovere ogni forma di sfruttamento o discriminazione. Con la sua retorica superficiale, al contrario, la democrazia recitativa finisce per creare ulteriori diseguaglianze, ulteriori discriminazioni e occasioni di sfruttamento.

Niente più uomo nuovo, dunque?

Anche in questo caso, la mia impressione è che rimanga l’involucro e vada persa la sostanza. Ma per rendersene conto occorre fare un passo indietro. O anche due, magari. Il riferimento più remoto è al Contratto sociale, nel quale Rousseau postula la necessità di intervenire sulla natura dell’uomo come premessa alla riforma della società. Un programma perfettamente illuminista, che tuttavia non va interpretato in senso totalitario. Tra la Rivoluzione francese e le dittature del XX secolo non esiste infatti una correlazione immediata. Bolscevismo, fascismo e nazismo presuppongono condizioni specifiche: l’esistenza di una società di massa, in primo luogo, e il trauma della Grande Guerra, che porta all’elaborazione dei nazionalismi totalitari. Si tratta di fattori determinanti per l’ideologia del partito unico, il cui obiettivo, in Unione Sovietica come in Italia e in Germania, non sta nell’emancipazione dell’essere umano, ma nella volontà di forgiare una nuova creatura. Sotto questo profilo, l’estetica dei totalitarismi mostra una straordinaria concordanza nella raffigurazione degli eroi della rivoluzione. Qualcosa di simile oggi sopravvive in Corea del Nord e, sotto mentite spoglie, domina il mercato globale.

In che senso?

Tramontate le speranze politiche, l’umanità nuova si è trasferita nel regno del consumo edonistico. Non si rinuncia alla palingenesi, ma la si restringe al culto del corpo e della forma fisica, con punte di entusiasmo che sfociano nel razzismo. Se quello dell’uomo nuovo è stato un mito degno di poemi epici, ora come ora siamo alla piccola prosa del benessere e dell’efficienza. Ma non so quanto potrà durare, sinceramente. La modernità è per sua natura aperta al futuro. Anche quando condanniamo gli errori del passato, non dobbiamo rinnegare le conquiste compiute. Giustizia e uguaglianza non sono valori superati. E questa non è utopia: è realismo.

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