mercoledì 26 ottobre 2011
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​Nato e cresciuto in Congo-Brazzaville, studi di Giurisprudenza in Francia, docente di letteratura francofona all’Università della California negli Stati Uniti. È riduttivo classificare Alain Mabanckou come uno scrittore africano. Non che non lo sia, tutt’altro. Nei suoi nove romanzi e sei raccolte di poesie - tradotti in una quindicina di lingue - è l’Africa, la sua gente, le sue sofferenze e le sue aspirazioni che si raccontano attraverso la voce potente e ironica di questo scrittore quarantacinquenne. Eppure, come molti altri africani suoi contemporanei, è anche un uomo della globalizzazione, che vive a cavallo fra tre continenti, mondi, culture, visioni delle cose molto diverse. Presso le quali si sente perfettamente a suo agio e ne è pure un lucido interprete. Pur non rinunciando, tuttavia, a mostrare e dimostrare la possibilità di uno sguardo diverso, quello che gli africani possono avere sul mondo. Come il piccolo Michel, protagonista del suo ultimo romanzo, Domani avrò vent’anni (premio Brassens), uscito in Francia per la prestigiosa collezione "Blanche" delle Edizioni Gallimard e in Italia per 66thand2nd, piccola casa editrice romana.Michel, 10 anni, due madri, svariati fratelli e sorelle, un padre che non è quello che lo ha concepito, racconta in maniera leggera, talvolta naïf ma mai banale, la sua vita quotidiana, le storie familiari e quelle della sua città, Pointe Noire. Sullo sfondo un Paese, la Repubblica del Congo, che negli anni Settanta è nel pieno della sua fase comunista, e il mondo entra in casa attraverso la radio, commentata dal papà.Professor Mabanckou, attraverso il piccolo Michel lei rilegge la storia di un continente e dei più importanti eventi mondiali da una prospettiva inedita. Ovvero dal cuore dell’Africa e con occhi di bambino. C’è qualcosa di autobiografico in questo libro?«Certamente. Michel sono un po’ io a quell’età. Del resto, è difficile essere realisti senza attingere alla propria vita. E così ho ricostruito gli avvenimenti di quegli anni attraverso di lui. Ci sono fatti piccoli, quotidiani, ma c’è anche la politica locale, che ricorre nei discorsi della gente, e c’è l’eco del mondo, che arriva sin lì attraverso "Voice of America". Un’altra dimensione essenziale per gli africani, che hanno un legame particolare con la radio, ovunque essi siano: anche nel luogo più remoto il mondo li raggiunge».Eppure, politicamente parlando, a quarant’anni di distanza non sembra che sia cambiato molto in Africa e specialmente nel suo Paese…«Abbiamo lo stesso presidente da più di trent’anni solo che da comunista il regime si è trasformato in capitalista. Con la differenza che oggi ci sono meno ricchi, ma con patrimoni enormi, mentre la gran massa della popolazione è poverissima. Dunque, per la gente non è cambiato molto. Sempre di dittatura si tratta, ovvero di un governo che, come molti altri, non ha come principale interesse quello di promuovere il benessere della popolazione, anche là dove, come in Congo, ci sarebbero le risorse. Purtroppo vanno a vantaggio solo di una piccola élite». I suoi non sono romanzi esplicitamente di denuncia, ma c’è pur sempre una critica sociale e politica che serpeggia tra le righe. Pensa che la letteratura possa favorire un processo di coscientizzazione e cambiamento?«Non direttamente. La letteratura è il regno dell’immaginario. Non si governa con questo, ma con una certa immaginazione sì. Purtroppo molti governanti africani non hanno alcuna immaginazione, rispondono solo a interessi forti, non si curano della letteratura, dell’arte, della cultura in generale. Che invece ha, o potrebbe avere, un impatto più forte sulla popolazione per favorire, come del resto ha già fatto in passato e continua a farlo in certi casi, processi di sensibilizzazione della gente».Lei, però, come molti scrittori africani, pubblica in Europa. Come raggiunge anche il pubblico africano?«Se non pubblicassi in Europa probabilmente non riuscirei neppure ad arrivare in Africa. Non solo perché nessuno mi conoscerebbe, ma anche perché probabilmente avrei grosse difficoltà a far pubblicare i miei libri in un Paese dove esiste la censura. Io penso che non bisogna ridurre l’Africa a un concetto geografico. L’Africa è ovunque ci sono degli africani che riflettono, si confrontano, discutono a partire da uno sguardo che è contemporaneamente dall’interno e dall’esterno. Tutta la diaspora africana è una grande risorsa per l’Africa».Va in questo senso anche il progetto «Pilgrimages» a cui ha aderito?«Certo. Si tratta di un’iniziativa del Chinua Achebe Centre for African Writers and Artist, che ha chiesto a quattordici scrittori africani di andare in "pellegrinaggio" in altrettante capitali dell’Africa durante la Coppa del Mondo di calcio dello scorso anno e di scriverne. Ne uscirà una collana di appunto quattordici volumi, che raccontano l’Africa contemporanea, le sue capitali, la sua gente. Io, da parte mia, sono stato a Lagos. Un’esperienza interessantissima, che mi ha aiutato innanzitutto a sbarazzarmi di molti luoghi comuni negativi che avevo sulla Nigeria e sui suoi abitanti. Viaggiare, leggere, incontrare persone diverse: questo aiuta a conoscersi e ad abbattere le barriere, anche quelle del pregiudizio».
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