venerdì 3 aprile 2015
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Hanno voluto la loro bicicletta, strumento di riscatto ed emancipazione. E ora pedalano, in fuga da rischi e nemici. Donne e sport: non proprio il binomio perfetto, in Afghanistan, anche nel dopo Talebani. Tutt’altro. Loro ci provano, scansando ostacoli ed evitando pericoli. Tra mille sacrifici, perché la passione conta, ma pure la sicurezza. E allora, sveglia ben prima dell’alba. Il tempo di prepararsi, e giù in strada, a cavallo di una bicicletta, per macinare chilometri. Meglio cominciare prima dell’alba (oppure dopo il tramonto, nel periodo del Ramadan) e chiudere presto le sessioni d’allenamento. Tocca pedalare su strade sterrate e sconnesse, ma soprattutto bisogna farlo quando minore è il rischio di incontrarvi gente. Altrimenti, sarebbero guai. Perché accade comunque, malgrado la prudenza usata. Succede loro di incrociare gente, lungo le strade. Ed è sempre la stessa storia: insulti, lanci di pietre e immondizia. Un calvario, da subire per inseguire i propri sogni. Se le donne sono spesso oggetto di molestie sessuali, figurarsi cosa può accadere a ragazze che fanno dello sport una ragione di vita. Tocca fare attenzione e sopportare, per quanto possibile. È come un tabù, da sfidare pestando sui pedali. È il sogno delle ragazze della nazionale afghana di ciclismo. Malika Yousufi è il capitano, leader di un gruppo di ragazze che nel fare sport sta provando a dare nuova forza alle donne di un paese conservatore, in cui per anni le donne sono state escluse da tutto, vita sociale o politica che fosse. Malika pedala, macina chilometri, insieme alle sue amiche, anche se ha già pagato sulla propria pelle: si procurò un infortunio alla schiena, quando un uomo su una motocicletta provò a disarcionarla dalla sua bici. Non ha paura, nei suoi occhi solo la strada lungo cui pedalare, inseguendo l’approdo che sogna da sempre, il Tour de France: «Nessuno ci fermerà». E nessuno le ha fermate, come pure è accaduto ad altre. Loro vanno avanti, mentre la nazionale femminile di cricket s’è fermata, quando le minacce si sono fatte pesanti. C’è chi dà loro una mano, come Shannon Galpin, americana, che le aiuta negli allenamenti e (grazie all’organizzazione di beneficenza Mountain2Mountain) garantisce abbigliamento, sponsorizzazioni, pubblicità: «La bicicletta qui non è solo strumento per fare sport, ma è anche mezzo di libertà: il modo migliore per una donna per andare a scuola o in qualunque altro posto, così come il mezzo migliore per evitare le molestie degli uomini». Una squadre, tante storie. E nessun limite d’età. Alizada ha 16 anni, pedala senza paura (al suo fianco, la sorella): «So che dobbiamo stare attente, ma io amo la bicicletta: mi è sempre piaciuta, così come la velocità. Spesso ci alleniamo con quelli della nazionale maschile, il che ci aiuta a diventare più forti e coraggiose». A guidarle, il coach, Abdul Sadiq: «Sono considerato il padre del ciclismo qui, per via della mia passione di lungo corso. Il mio progetto con le donne si perde nei meandri del tempo, fui costretto a interromperlo durante il regime dei Talebani. Altra storia, prima: durante il comunismo, le donne usavano molto le biciclette, il mio club aveva più donne che uomini tra gli iscritti. Poi, la guerra civile cambiò le cose. Dovetti dire alle ragazze che non era più possibile correre per loro: è stato uno dei momenti più tristi della mia vita». Anni di regime hanno lasciato il segno. In totale, sono ora 15 le ragazze che praticano il ciclismo. Ben 6 di loro sono nella nazionale. Molte hanno cominciato da poco, il livello agonistico è ancora basso, non hanno vinto ancora nulla, in alcuna competizione, 'ma partecipare per loro è già vincere, perché dimostrano la determinazione e il coraggio delle ragazze afghane». In attesa di crescere e realizzare qualcuno dei loro sogni.
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