Che uso fanno i nostri ragazzi di internet? Che impatto ha la Rete su di loro? Che rischi corrono quando navigano? E quali sono le responsabilità dell’adulto? Sonia Livingstone, direttrice del
Department of Media and Communications della
London School of Economics, professore di Psicologia sociale e tra i maggiori esperti di media e comunicazione in Gran Bretagna con particolare occhio per l’
audience giovanile, cerca di rispondere a queste domande nel suo
Ragazzi online, pubblicato recentemente in Italia da Vita & Pensiero. Nel volume la Livingstone analizza l’ambiente digitale basandosi su un’ampia gamma di dati e ricerche e sullo studio dello spazio culturale e politico all’interno del quale si articolano diverse interpretazioni. Non si schiera né a favore né contro l’uso di internet da parte dei ragazzi, ma sottolinea la necessità di trovare un equilibrio tra l’esigenza di un accesso sempre più ampio e la sicurezza; tra le dinamiche di espressione di sé e la tutela della
privacy; tra i rischi e le opportunità. E conclude con un avvertimento: «È alla società degli adulti che resta la responsabilità di dare forma, nel bene e nel male, a questo ambiente».
Professoressa Livingstone, com’è possibile trovare l’equilibrio di cui parla?«Un buon metodo per evitare gli aspetti negativi dell’utilizzo di internet è indirizzare i ragazzi verso gli usi positivi, evitando così i rischi e allo stesso tempo potenziando le loro capacità di apprendimento, istruzione, creatività ed espressione di se stessi. In questo modo si limitano i pericoli e vengono promossi i diritti di comunicazione. Esistono diverse strategie volte alla riduzione dei rischi e la legislazione è una di queste. Nella maggior parte dei Paesi ciò si traduce nell’applicazione o nell’estensione dei quadri normativi ai contenuti, ai servizi e alle attività online. Ma il problema di questa strategia è che la produzione dei cambiamenti legislativi ha tempi lunghi, che le misure assunte hanno di solito carattere nazionale, non sempre coerente con un fenomeno globale come internet, e che le leggi intervengono in genere solo in situazioni "ad alto rischio"».
Lei propone dunque un nuovo metodo di legislazione per proteggere i giovani?«Un esempio potrebbe essere l’introduzione di un codice come quello stradale. Nessuno ha problemi a rispettarlo e tutti sono consapevoli dei rischi che corrono se non lo fanno. Sappiamo ad esempio che passando con il semaforo rosso si rischia un incidente. Lo stesso design adottato per gestire la sicurezza nelle strade dovrebbe essere adottato su internet. Non si tratta solo di imparare a navigare il cyberspazio con la stessa sicurezza degli ambienti
offline, ma anche dell’importanza di progettare e pianificare la Rete in modo sicuro. In altri termini è possibile insegnare a un bambino ad attraversare la strada senza pericolo solo in ambienti che sono stati progettati tenendo ben presente la sicurezza: semafori, segnaletica e così via. È vero che negli ultimi anni sono stati fatti passi avanti. Per fare solo un esempio, se fino a qualche anno fa digitando "come suicidarsi" su un motore di ricerca apparivano indirizzi che spiegavano praticamente come uccidersi, oggi il primo indirizzo che appare su Google è quello di un ente di carità che cerca di dissuaderti dall’atto. O ancora: se prima digitando "adolescente" si veniva bombardati da immagini pornografiche di minorenni, ora si viene diretti a siti di scambi giovanili che usano filtri».
Da dove si comincia a regolamentare un mondo così vasto come internet?«Ovviamente non è compito facile, ma può essere reso meno arduo se si considera che la maggior parte dei giovani usa sempre gli stessi siti, 3 massimo 4, come dimostrato dalle mie indagini. Un
teenager – che viva in America, India o Australia – quando si collega a internet di solito passa per Google, Youtube, Facebook, Twitter e pochi altri. Se questi siti, che negli ultimi anni hanno già migliorato la sicurezza, comiciano a introdurre semafori rossi, metà del lavoro è fatto».
Come può un genitore assicurarsi che il figlio faccia buon uso di internet?«Viviamo in un ambiente mediale e comunicativo complesso e onnipresente. Nessuno può starci fuori, e nessun bambino o ragazzo desidera farlo. I giovani sperimentano di continuo una tensione a giocare, imparare, esplorare, creare, condividere, contestare e correre qualche rischio. L’ambiente in cui realizzano tutte queste attività, sia
online sia
offline, per molti aspetti non dipende da loro. Spesso i genitori mettono i figli davanti al computer e li lasciano navigare liberi. Non desiderano condividere questo mondo con i figli ma lo giudicano a distanza, senza veramente conoscerlo. La soluzione potrebbe essere sedersi con loro e partecipare. Questo ci farebbe capire più da vicino il loro mondo, ci spaventerebbe di meno e ci darebbe la possibilità, che come adulti ci spetta, di avere un controllo sui rischi che corrono».
Lei dirige anche il network di ricerca Eu Kids Online, finanziato dalla Comunità Europea. Ha riscontrato diversità tra i Paesi sull’uso che i giovani fanno di internet? «In Gran Bretagna sono stati fatti molti passi avanti, la legislazione è stata migliorata e oggi i ragazzi hanno meno accesso alla pornografia
online. I Paesi in Europa dove si riscontra una situazione di legislazione carente e di alto rischio sono soprattutto quelli dell’Est come l’Estonia, la Repubblica Ceca e la Bulgaria. Queste nazioni beneficiano di un accesso molto veloce alla Rete, ma ciò non è sostenuto da un’infrastruttura che ne garantisca la sicurezza e ne minimizzi i rischi».