lunedì 10 dicembre 2012
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La fotografia ha completamente trasformato il nostro rapporto con il mondo. Walter Benjamin osservava che noi figli del Novecento pensiamo la Storia per immagini. Davanti alla foto dell’Abbé Pierre presa da Henri Cartier-Bresson nel 1994 viene da pensare a un’icona, a una rappresentazione ideale di qualcosa che sfugge al carattere "biografico" – quel dato giorno, quella situazione. Qui l’Abbè Pierre (Lione, 5 agosto 1912 – Parigi, 22 gennaio 2007) rappresenta al pari della raffigurazione di un santo bizantino non se stesso ma l’incarnazione di una virtù teologale. Il suo sguardo accogliente e allo stesso tempo non protagonista, come se si ritirasse di fronte all’obbiettivo fa parte dei canoni della pittura sacra – quella che rappresentava i santi non come biografie, ma come canali, inviti, accessi alla divinità: «Non a me ma al Tuo nome dà gloria». Cartier Bresson ha colto nella modestia del frate tutta la storia dell’iconografia cristiana della carità. Di questa foto Cartier-Bresson diceva che «ci sono delle immagini che è come se irradiassero intorno a se: è come una emanazione che impregna tutta la pellicola». L’Abbé Pierre è tornato all’evidenza della carità come risposta immediata ai bisogni altrui. Dopo secoli di costruzioni assistenziali da parte delle istituzioni ecclesiastiche e poi statali, l’appello del prete per i senza tetto (si era negli anni subito dopo la guerra e la Francia riceveva in più i frutti della propria storia coloniale in decine di migliaia di maghrebini) suonava rivoluzionaria: tornare alla carità come responsabilità individuale a cui ogni credente e non era chiamato. In uno dei suoi ultimi scritti, quello sulla storia dell’ospitalità (si trova nella Perdita del Senso) Ivan Illich ricostruisce il percorso che ha portato dalla carità come responsabilità immediata e individuale alla sua imbalsamazione come istituzione. È come se la Chiesa e la società avessero sempre bisogno a un certo punto di qualcuno che richiami all’evidenza immediata della carità, al suo carattere interpersonale, il buon samaritano che identifica il suo prossimo senza mediazioni (spesso dimentichiamo che nella parabola è il samaritano che viene da Cristo indicato come il vero prossimo). L’Abbé Pierre ha rappresentato questo richiamo più di ogni altri, perché l’urgenza dell’aiuto ha spinto lui e i suoi discepoli a cercare di rispondervi con i mezzi più semplici e a portata di mano – le cose, i mobili, gli oggetti che la gente buttava via. Oggi si parlerebbe di riciclaggio, di coscienza ecologica, ma ai tempi della fondazione di Emmaus era l’unico modo di sottrarsi alla carità come istituzione. In un magnifico studio di Peter Brown sulla storia della povertà e della ricchezza nei primi secoli del cristianesimo, Through the eye of a needle, «attraverso la cruna di un ago» viene ricostruita la differenza tra la concezione cristiana della povertà e della carità e la concezione che di entrambe le cose aveva il mondo romano. Per il mondo romano della fine dell’Impero tutte le relazioni umane erano definite dalla reciprocità: il do ut des era un principio fondamentale, quello che teneva unito l’impero. Ogni suddito ricco o povero era legato agli altri da una rete di obbligazioni, favori, clientele, dal centro alla periferia più lontana. L’Impero si reggeva proprio su questa ragnatela infinita di reciprocità dentro un sistema altamente gerarchico. Il cristianesimo instaura un regime sociale che individua la povertà come un’entità slegata dalla reciprocità. La carità deve essere in un solo senso, assolutamente gratuita. Il povero, il bisognoso è colui a cui bisogna dare senza attendere nulla in cambio. Peter Brown dice che nel mondo romano l’idea di elemosina era inconcepibile, non così però nella tradizione giudaica e poi nella rivoluzione cristiana. Il cristianesimo inventa la povertà, la pone al centro del senso della carità, sostituisce addirittura all’idea di elemosina l’idea di fare la carità. In questo senso sconvolge le istituzioni sociali, perché fa della povertà non una occasione per il ricco di aprire una reciprocità con una vasta clientela, ma per l’individuo l’occasione di "scandalizzarsi" del bisogno altrui, del sentirsi in dovere urgente di rispondervi.
E a tutt’oggi, con la crisi presente l’idea che occorra andare "incontro" al bisogno altrui non ammette le prudenze e le strategie istituzionali nei confronti della povertà. La povertà non è un affare assistenziale, ma è un interrogativo posto al singolo individuo, alla sua coscienza. L’Abbé Pierre è un grande azzeratore, in questo senso, qualcuno che riporta la povertà a problema per il cristiano. Certo, poi può accadere che tutto ciò costruisca nuove istituzioni e allora bisogna aspettare che arrivi un nuovo azzeratore a richiamare allo scandalo del bisogno. Ovviamente questo cozza, e non con il welfare, perché da un lato riporta la carità alla responsabilità di ciascuno, dall’altra ne è la base, perché un welfare tutto istituzionale produce solo clientele.
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