martedì 18 ottobre 2016
Raccolti in un volume i racconti autobiografici​. "Nel cibo c'è un legame con lo stare insieme e la felicità della presenza degli altri".
Lo scrittore Abate: a tavola profumo di sacro
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È un elogio della vita che ha il “sapore della cuntentizza” la storia autobiografica, screziata di venature malinconiche, che si sprigiona, profumata e fragrante come un buon piatto, dai racconti autobiografici di Carmine Abate. Quelli editi e inediti che lo scrittore ha riunito, rivisto e amalgamato, ne e che esce oggi per Mondadori (pagine 166, euro 15,00). Da sempre il cibo è tema dominante nell’opera dell’autore calabrese: arbëreshë Il Banchetto di nozze e altri sapori da Il Ballo Tondo a La Festa del ritorno, Il Bacio del pane La Felicità dell’attesa. , ne comenell’ultimo libro .«Edel resto - ci sorride incontrandoci - condivido pienamente una citazione di Francis Bacon che dice: “Alcuni libri vanno assaggiati, altri divorati e alcuni, rari, masticati e digeriti’’». Il tono gentile e cristallino della narrativa di Abate s’infiamma d’accensioni improvvise quando a entrare in scena è proprio il cibo: come durante il banchetto (il “cumbito”) per la laurea di Carmine e che farà esclamare il padre: «Voglio tanta robba saporitòsa e locale, come in un cumbito di nozze». Che legame intercorre nei suoi racconti tra il cibo e la vita? «Un legame che non ha a che fare solo con il nutrirsi, ma con il benessere, lo stare insieme, la felicità della presenza degli altri. Nel banchetto citato, che è parte del racconto L’estate in cui conobbi Anna Karenina, , c’è la gioiosità del mangiare senza alcuna paura: neanche quella d’ingrassare». In questi racconti, che hanno il pregio di guidare il lettore, senza enfasi o tesi didascaliche, al centro delle tematiche care all’autore - l’emigrazione, la nostalgia, l’esistenza vissuta per addizione - colpisce l’importanza assunta proprio dal tema del cibo. Perché mangiare è così importante nella sua vita? «Perché il cibo ha rappresentato sempre per me una svolta. Le tredici cose buone del Natale, dal titolo di un racconto, sono le pietanze che si preparavano in casa e che annunciavano l’amato ritorno in Calabria di mio padre emigrato in Germania. Quando tentò più tardi di restare con noi in paese lavorò con la frutta e la verdura. Io stesso quando me ne andai a lavorare in Germania trovai, casualmente, un impiego in un’industria alimentare, che, ironia della sorte, lavoravaiprodottidelnostro Sud: allora ho cominciato a riflettere». Si parla di sacralità del cibo, ma la si associa spesso a qualcosa di austero e di grave. Perché invece la ritualità del mettersi a tavola nei suoi racconti emana una carica gioiosa? «Perché quello che chiamo il “sapore della cuntentizza” è un’espressione che usava mio padre per definire la sua infanzia. E che aveva il gusto dei suoi cibi preferiti: l’anguria, il kaki vaniglia. Anche quando si ammazzava il maiale, come racconto, ogni parente dava poi un banchetto: e noi mangiavamo carne una volta alla settimana per tutto l’inverno, vivendo in queste tavolate tutto il senso della sacralità del cibo». Quella raccontata ne Il Banchetto di nozze è innanzitutto una storia di formazione, la sua. Quella di Carmine Abate che riprende il filo del discorso interrotto con La Festa del ritorno quando il suo protagonista rischiava di morire. «Ma anche allora - puntualizza lo scrittore - io raccontavo di come all’ospedale di Napoli mi dessero da mangiare nientemeno che la pasta e fagioli: sì, già allora ho avvertito il cibo come qualcosa di salvifico, come una medicina». Perché questo gusto del cibo da vivere insieme ci porta dritti al cuore della sua poetica con il tema dell’emigrazione positiva? «Perché la Calabria, terra di migranti, è tutta dentro di me. Ed è questa l’unica nostalgia. Uno dei miei protagonisti, il cuoco d’Arbérìa, lo dice chiaramente: “Gira più che puoi e goditi i sapori del mondo”. Il cibo del sud può mescolarsi con quello del nord, come avviene nel mio racconto, credo rivelatore sin dal titolo, Polenta con ’nduja. Quest’incontro tra il piatto simbolo del settentrione, che racconta a sua volta la lotta per uscire dalla povertà, con l’insaccato simbolo della Calabria, può essere una chiave di lettura valida per comprendere il suo concetto di vita vissuta per addizione? «Sì, se sei costretto a partire non devi tagliare i ponti o vivere senza integrazione con la testa rivolta al passato. Ma prendere il meglio delle nuove esperienze. I sapori sono addendi di una vita ricca. Prendiamo i canederli, che sono un piatto trentino, prò tagonista di un altro dei miei racconti. E un piatto che amo e che è fatto degli stessi ingredienti - ma amalgamati in maniera diversa - che ritrovo nella mia Calabria». Che cosa significa che l’emigrazione può essere vista non solo come strappo e nostalgia, ma come una ricchezza? «Rispondo restando fedele alla natura del libro con il suo protagonista: è il cibo che facilita l’incontro. È bello offrire agli altri il cibo della propria terra e scoprire come anche quello nuovo sia “saporitòso”. Il cibo è un elemento di integrazione, non di assimilazione. Si può anche dire che, senza steccati identitari, il cibo ci aiuta a vivere in un’identità plurale».
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