giovedì 2 luglio 2015
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La fila per strada c’è ancora, come mezzo secolo fa. Sono cambiati i volti, nel frattempo, si sono sovrapposte lingue e storie diverse, anche se negli ultimi anni l’italiano è tornato a farsi sentire con frequenza sempre maggiore. «Nel 2014, per la prima volta dopo tanto tempo, a usufruire dei nostri servizi sono stati proprio gli italiani», spiega padre Maurizio Annoni. Siamo in viale Piave, a due passi dal centro di Milano. Zona residenziale, quartiere elegante adesso come negli anni Cinquanta, quando i poveri facevano la coda alla portineria del convento francescano per ricevere «la minestra dei frati», come si diceva allora. A servirla era fra Cecilio Cortinovis, un religioso originario della Bergamasca di cui è attualmente in corso la causa di beatificazione. Padre Maurizio, che dal 2000 è di fatto il suo successore, impugna il grosso volume della positio canonica, lo sfoglia, recupera date e testimonianze. Anche se poi, in effetti, quello che c’è da dire lo raccontano i fatti. Lo racconta, più che altro, quella famosa fila di affamati che si snoda per strada. «Fra Cecilio lo diceva sempre: quando uno viene per mangiare, non ha solo fame», ricorda padre Maurizio.L’Opera San Francesco per i poveri (Osf) nasce da questa consapevolezza nel 1959, per l’esattezza il 20 dicembre, quando il cardinale Giovanni Battista Montini inaugura la mensa che oggi arriva a distribuire una media di 2.700 pasti al giorno, tra pranzo e cena. Nell’immagine che fissa il taglio del nastro, a fianco dell’arcivescovo ci sono fra Cecilio ed Emilio Grignani, il benefattore che nel dopoguerra guarda con curiosità crescente quello snodarsi di bisognosi in attesa, ci pensa su e bussa a sua volta alla porta del convento. Per offrire, questa volta, non per chiedere. È lo stile di Milano, il vero “rito ambrosiano”: concretezza imprenditoriale e cristianesimo incarnato, la Chiesa solidale e la società civile, che una volta aveva il volto attento di una borghesia non egoista. Anche qui, però, meglio non generalizzare. Quando ci fu da mettere in piedi la mensa, il dottor Grignani – da queste parti lo chiamano ancora così – si occupò di mura e planimetrie, tutto chiavi in mano, ma volle che fosse fra Cecilio a chiedere i permessi in Comune. E il sant’uomo, davanti al funzionario che scuoteva la testa (non per l’iniziativa, figurarsi, ma per la zona, per il decoro del quartiere), se ne uscì con una domanda tagliente: «Ma allora in centro abitano solo i peccatori?». Il peccato è l’omissione, è voltare la testa dall’altra parte, ostacolare l’avanzata della misericordia. Un rischio che, purtroppo, non appartiene al passato.Può sembrare strano che un viaggio tra i luoghi in cui oggi, in Italia, si praticano le opere di misericordia corporale parta da Milano, con quel “dar da mangiare agli affamati” che pure sta sottotraccia all’evento di Expo 2015. Ma la fame, nella città di sant’Ambrogio e san Carlo, non è solamente argomento di studio. Un’emergenza quotidiana, piuttosto, un assillo incalzante che cercano di placare numerose mense, non soltanto di ispirazione religiosa, sparse per tutto il territorio urbano. La più recente, il Refettorio Ambrosiano, è stata appena inaugurata nel quartiere Greco: dall’Expo arrivano gli avanzi e sul tavolo finisce un menu ideato dallo chef Massimo Bottura.Di questa articolazione capillare l’Osf continua a costituire l’avamposto più spostato verso il centro della città. Sempre più verso il centro, anzi, dato che di recente all’angolo tra viale Piave e corso Concordia ha aperto un hotel a cinque stelle. La convivenza con i senzatetto che aspettano la pastasciutta non era scontata e invece si è rivelata possibile. Magari perché alberghi e conventi hanno in comune la presenza di una portineria.«Tutto parte da lì e tutto lì si riassume», insiste padre Maurizio, che prima di entrare nell’Ordine era ingegnere civile e che per l’organizzazione dei sistemi complessi conserva evidentemente un certo talento. «La portineria – aggiunge – è il punto di incontro tra Città di Dio e città degli uomini, tra fame di pane e fame di relazioni. Del resto, basterebbe tornare alle prime mappe dei conventi francescani: nelle celle dei frati non era previsto il riscaldamento, le stufe stavano solo nelle stanze adibite all’accoglienza dei poveri».Sono quasi le 18, i volontari iniziano a prendere posto in mensa: qualcuno smisterà il traffico, altri scodelleranno il cibo. Al piano di sotto (al quale si accede da un altro ingresso, in via Kramer) è già attivo il servizio delle docce. Si distribuiscono asciugamani e biancheria pulita, si valuta se sia il caso di applicare il trattamento antiscabbia. Ogni anno se ne praticano almeno 150. Qualche settimana fa, quando la malattia è stata presentata come una sorta di epidemia propagata dai profughi ammassati alla Stazione Centrale, in viale Piave si sono guardati in faccia. Un po’ scappava da ridere, un po’ veniva da arrabbiarsi. Per Milano la scabbia non è una novità, né lo sono i poveri in coda per un pasto o per un’altra necessità. Nelle sue varie sedi l’Osf garantisce anche assistenza medica, un guardaroba e i percorsi della cosiddetta “area sociale”, di cui fa parte la consulenza per la ricerca di lavoro.A tutti i servizi si accede con un tesserino, un badge simile a quelli in uso nelle aziende. E anche i badge, i tesserini hanno una storia da raccontare. Questa, per esempio: in convento ci sono un paio di locali da ristrutturare, arriva l’impresa edile, il titolare è un albanese che a un certo punto mette mano al portafoglio e, con un sorriso, tira fuori un rettangolino di plastica. Il tesserino dell’Osf, esatto. Quando era arrivato a Milano, senza niente se non i vestiti che aveva addosso, anche lui era venuto qui a sfamarsi. «Quella albanese è stata la prima comunità di stranieri con la quale ci siamo trovati a confrontarci, già nel corso degli anni Ottanta – dice padre Maurizio –. Gli immigrati c’erano anche in precedenza, ma venivano dal Sud. Erano gli anni delle valigie di cartone, dei viaggi della speranza».Negli ultimi decenni tutto è cambiato, molto rapidamente. Basti pensare all’arrivo dei rifugiati eritrei nel 2014, basta dare uno sguardo al menu della mensa, che nel periodo del Ramadan offre pasti confezionati in sacchetti, da portare via per mangiare dopo il tramonto. Anche l’intensificarsi di presenze femminili è una tendenza sempre più avvertita. Prima all’Osf si presentavano non più di una dozzina di donne per turno, ora sono molto più numerose. Vengono dall’Europa dell’Est, dall’Africa. E dall’Italia.«La crisi si è fatta sentire subito, fin dal 2008 – ammette padre Maurizio – e nel 2014 gli italiani sono stati il gruppo più consistente: il 13% degli assistiti, un punto percentuale in più rispetto ai romeni». Anziani con la pensione minima e nessuna rete familiare, padri separati o persone che hanno perduto il lavoro: tutti vengono nutriti, ascoltati, accompagnati in un cammino che vuole portare a recuperare dignità. I volontari laici sono molti, l’età media sfiora i 60 anni. Per effetto della crisi, invece, le offerte sono in lieve contrazione, compensate però dai lasciti testamentari. In questo momento le pratiche di successione a favore dell’Osf sono una cinquantina, a conferma di una generosità che si sforza di incidere nel tempo. Il dottor Grignani, in fondo, aveva in mente esattamente questo.
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