giovedì 26 maggio 2022
Un anno di dialogo che ha coinvolto intellettuali di tutto il mondo sull’Osservatore Romano a partire dal Messaggio per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali 2020
44 voci sul senso del narrare

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Il Messaggio del Papa per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali 2020 è stato spunto per un vasto dialogo sul tema del “racconto delle storie” che si è sviluppato per tutto il 2020 sulle colonne dell’“Osservatore Romano” diretto da Andrea Monda, e che ha coinvolto decine di intellettuali di tutto il mondo. Ora quel dialogo confluisce nel volume La tessitura del mondo. Dialogo a più voci con i grandi protagonisti della cultura sul racconto come via di salvezza in uscita oggi in coedizione Salani/Libreria Editrice Vaticana (pagine 234, euro 16,00). A impreziosire la raccolta, curata dallo stesso Monda, è l’inedita postfazione Sul raccontodi papa Francesco, che QUI anticipiamo integralmente e che già richiama alcuni dei contributi alla riflessione collettiva. Difficile dar conto della complessità di un dialogo intessuto in ben quarantaquattro interventi, e quasi anche solo enumerarli. È stato un lavoro collettivo che ha scavato in profondità quella ricerca di “salvezza” emersa in un momento non casuale: si era infatti nel pieno della prima ondata della pandemia, con tutte le paure, i dolori e gli isolamenti che portava con sé. Così il tema del “racconto delle storie” va inteso, come scrive Monda nella sua introduzione, «come attività squisitamente umana che si rivela di importanza cruciale e vitale in un tempo di crisi e di divisioni»; così, nota Edna O’Brien, scrivere «è un piccolo contributo al miasma di sofferenza che investe il nostro mondo moderno»; così, osserva Timothy Radcliffe, «in questa crisi, possiamo tutti rappresentare l’orecchio misericordioso di Dio, partecipando al dramma della vita altrui, rassicurandoci gli uni gli altri della vittoria finale dell’amore». Al ruolo della narrazione in tempi di pandemia dedicano parte della loro riflessione anche Carola Susani («l’epoca in cui viviamo ci chiede a gran voce di individuare il bene e di raccontarlo»), Paolo Pegoraro («le storie buone sono quelle che aiutano la memoria nel delicato processo della guarigione») e Brunetto Salvarani, che include nel suo sguardo anche la crisi dei migranti («fratelli e sorelle stranieri che ci vivono accanto e che vorrebbero narrare la propria storia»), mentre molti contributi si soffermano sullo specifico individuale e sociale del raccontare, e dello scrivere.

Eraldo Affinati sottolinea che «soprattutto oggi abbiamo necessità di legare la lingua all’esperienza: ciò che scriviamo e diciamo dovrebbe scaturire dalla nostra esistenza », Mary Karr che «ogni grande opera letteraria inizia con un essere umano [...] che vuole uscire e trovare un’altra creatura che la pensa come lui», Gaetano Piccolo che «quando ci raccontiamo, scopriamo anche qualcosa in più di noi», Nicola Lagioia che «la lingua letteraria, raccontando in modo profondo gli esseri umani nella loro solitudine e nelle loro comunità [...], riesce inaspettatamente a liberarci». Se Daniel Mendelsohn ricorda che «la parola è un ponte» e che «ogni storia che viene raccontata crea connessione, comunione », Giancarlo De Cataldo puntualizza che occorre raccontare anche il male, perché «non può esserci speranza se prima non si entra nei labirinti della notte» e Mariapia Veladiano che «la bella narrazione non ha regole fuori da sé, non ha padroni [...]. Il narrare bello chiede solo la fedeltà alla vita». E può perfino accadere che «il racconto non è più solo il vettore di trasmissione della verità, ma è la verità stessa» (Sandro Veronesi). L’io e il noi, l’interiorità e l’alterità si intrecciano continuamente – per restare alla metafora del tessuto che innerva tutte le riflessioni – in un dialogo che dalle pagine della raccolta curata da Monda si eleva, ispirato da Francesco, ad abbracciare l’essenza dell’umano in ogni sua declinazione, e che proprio nel racconto trova la propria misura. «Se ci si muove solo sull’asse orizzontale – nota Guglielmo Spirito – ci si affanna e disperde. Ma se ci si muove sull’asse verticale (della profondità o del senso), allora la distanza non crea dispersione ma apertura». E Piero Boitani rileva che «il mondo è narrazione: soltanto in questo modo si palesano in parte i misteri insondabili del Principio in termini a noi comprensibili» Racconto non è solo quella della parola: anche lo spazio attorno a noi, la natura del Creato e il paesaggio plasmato dall’uomo ci parlano, come rimarca Mario Botta: «ascoltare racconti, anche quelli silenziosi che il territorio custodisce, aiuta gioia e fatica a connotare il “fare” dentro un tempo dove, almeno apparentemente, hanno la meglio i fattori più prosaici dell’attualità».

Riflettendo sul narratore, Manoocher Deghati precisa che «devi interessarti a quello che vuoi raccontare. Devi conoscere. Devi sapere perché vuoi raccontarla», mentre per Annie Proulx «ogni racconto [...] contiene la propria verità. E molte verità sono travestite da narrativa ». Anche quelle ultime: «Dio si è fatto racconto – scrive Marco Ronconi – perché l’umanità meritava racconti che fossero alla sua altezza». Nell’intersezione dei due assi, orizzontale e verticale, si muovono anche Enrico Zarpellon («il racconto diventa una chiave per aprirsi dall’interno, capace di aiutarci a capire e a dire chi siamo»), Piero Pisarra («a ogni generazione è chiesto di inventare i propri racconti, resistere ai prìncipi del silenzio che vorrebbero controllare o prosciugare il mare delle storie») e Jean Louis Ska («il testo offre mille possibilità e spetta a ciascuno e a ciascuna comunità cogliere l’opportunità offerta»), mentre si soffermano a declinare la metafora tessile Benjamin Bevc («essa ci consente di esprimere il carattere intrecciato, spesso imprevedibile e tortuoso, eppure unitario della nostra esistenza») e Stefano Degli Abbati («nel concetto di narrazione, che implica una trama, necessariamente itinerante tra un inizio e una fine, quindi specchio della nostra vita, potrebbe risiedere la possibilità di trovare l’essenziale dell’umano»). Se per Daniele Mencarelli la partita decisiva si gioca nell’«offrire all’uomo una narrazione che torni a relazionarlo autenticamente con la sua natura», e per Cristiano Governa «osservare e trasmettere bene una storia non rivela meramente quanto di nuovo o di bello ci sia in quella vicenda, bensì in che modo quella faccenda sia infinita», secondo Roberto Andò «il romanzo s’instaura lì dove regna il relativo, quando Dio sembra aver lasciato il campo all’uomo».

Ed è forse proprio il rapporto con il mistero la molla essenziale che ha fatto scattare «l’impulso umano più antico, inestirpabile », cioè «il riconoscimento di un mistero al quale ci si può accostare solo attraverso il mito» (David Mamet). D’altra parte lo stesso «disegno eterno e misterioso, per rendersi intellegibile, non ha inviato un profeta. Per sua stessa natura, è Parola» ( Jean-Robert Armogathe), tanto che ««alla radice il racconto non è altro che lo sguardo di Dio sull’uomo attraverso il tempo» (Sergio Valzania). Se, rimarca Amy-Jill Levine, «le parabole di Gesù hanno ispirato teologi ed eticisti, artisti e scrittori, in ogni secolo e in tutto il mondo», Paul Elie ci esorta ad «agire con audacia e decisione. Se vogliamo arrivare dov’è Dio, unire la nostra storia alla sua, a volte dobbiamo aprire un varco nel tetto». Perché in fondo, chiosa Marco Tibaldi, «la narrazione [...] è anche il luogo entro cui incontrare il nostro Salvatore».

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