lunedì 13 luglio 2015
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Sicuramente avevamo più capelli e qualche chilo di meno. Ma soprattutto avevamo più sogni. Fragili e velleitari come puoi averli a 20 anni o giù di lì ma capaci di gonfiarci i cuori di speranza. Ci credevamo davvero in tanti, trent’anni fa, al fatto che la musica potesse contribuire a salvare il mondo o almeno a combattere l’enorme carestia che aveva colpito l’Etiopia.Così il 13 luglio 1985, un sabato caldo come quello appena passato, eravamo tutti davanti a Raitre per vedere (poco dopo mezzogiorno) la diretta del Live Aid, il più imponente concerto benefico della storia del rock che si svolgeva su due palchi, uno a Londra e uno a Filadelfia. I più fortunati avevano comprato una pila di videocassette per «registrare tutto». Perché quello, per chi amava il rock, era un momento davvero storico.L’idea era venuta a un musicista irlandese neanche tanto di successo. L’ex leader dei Boomtown Rats. Tale Bob Geldof, che allora solo pochi conoscevano e quasi esclusivamente per la canzone I don’t like monday. Lui, dopo avere visto un servizio alla Bbc sulla carestia in Etiopia, aveva prima riunito alcune star inglesi, realizzando il singolo Do They Know It’s Christmas. Un gesto nobile, come se ne vedevano (e se ne vedono pochi) nel mondo della musica. Un gesto che aveva spinto le rockstar americane a incidere We are the world, sotto la sigla Usa for Africa. Due mondi e due canzoni che avevano dato vita a un grande successo e spinto molti artisti a (ri)scoprire il valore della solidarietà.

Per mesi Bob Geldof aveva contattato gli artisti di mezzo mondo, inventandosi qualunque stratagemma per convincerli a partecipare ad un grande concerto benefico da tenere nell’estte 1985. Il "trucco" si svolgeva più o meno così: Geldof telefonava a Paul McCartney e gli diceva che George Harrison aveva dato la sua disponibilità a partecipare. Peccato che Harrison non ne sapesse ancora niente. Ma siccome George e Paul ai tempi non si parlavano il trucco funzionò. McCartney disse a Geldof che se c’era Harrison ci sarebbe stato anche lui. Così Bob telefonò a Harrison dicendogli: Paul ci sarà, non puoi non esserci.Di colpo in colpo, di trucco in trucco, Geldof aveva convinto un numero impressionante di star a dare la propria adesione al concerto Live Aid. Il 13 luglio 1985 tutti fecero a gara per dare il meglio di sé. E per una volta, sullo stesso palco, si esibirono artisti con storie, carriere e visioni della musica molto diverse. Sedici ore di diretta musicale, seguite da oltre 2 miliardi e mezzo di spettatori in oltre 100 Paesi del mondo. Raccontato oggi può forse far sorridere, ma allora chi suonava rock snobbava chi faceva pop e chi credeva nel pop non amava i gruppi filo dance. Riviste oggi molte di quelle performance sono irrimediabilmente datate. Nei suoni come nei costumi. Ma la loro verità, il loro cuore, la loro spinta solidale resta intatta. Con una menzione speciale per Phil Collins che, dopo essersi esibito a Londra, prese al volo un concorde per volare a Filadelfia in tempo per la chiusura della maratona musicale. In Italia erano le 4 e 51. Segno tangibile che i due mondi musicali erano collegati.Quando ormai all’alba Bob Geldof ritornò a casa non sapeva ancora la portata esatta di quanto aveva fatto. Solo nei giorni successivi si seppe che Live Aid aveva raccolto 50 milioni di sterline (salite a 150 milioni nei mesi successivi). E solo dopo qualche giorno si seppe che la maratona era stata seguita da oltre 2 miliardi e mezzo di persone. Così, quando Bob raccontò tutto tronfio a sua nonna quello che aveva fatto la sera precedente, si sentì rispondere: «Tutto qui? Ricordati che chi fa vera beneficenza non si edve montare mai la testa».
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