martedì 2 giugno 2015
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Per avviarci verso una teologia cristiana dello sport, occorre scavare a fondo. Le nostre indagini ci devono portare nel cuore stesso dell’identità di Dio e del progetto di Dio. Qualsiasi altro approccio sarebbe destinato a fallire. Questo perché a noi è dato di comprendere lo sport solo se prima riusciamo davvero a capire chi siamo noi stessi: lo sport ha pienamente a che fare con la nostra identità più essenziale. Ecco perché gode di una popolarità inarrestabile.Se, alla luce della dottrina della creazione, possiamo dire che la creatura gode di una genuina esistenza su un percorso che va dal nulla verso Dio, allora possiamo dire che lo sport è la liturgia – l’attualizzazione comunitaria “drammatizzata” irriducibilmente incarnata – di questa identità del tutto basilare. Quando pratichiamo uno sport, stiamo celebrando la nostra forma liberamente determinata in quanto creature particolari, mettendo in opera un’attività non necessaria ma ricca di significato, liberamente determinata e governata da sue regole. Attraverso questa attività radicalmente contingente, risuoniamo con noi stessi nell’integrità della nostra libertà. Si tratta di un evento in cui la creatura, in quanto creatura, celebra se stessa. In breve: lo sport è una liturgia della nostra contingenza.Quando andiamo a un evento sportivo, che sia per giocare o per esserne spettatori, dal vivo o attraverso i media, non lo facciamo perché ci rende più sani, più ricchi, più felici o per qualcosa di simile. E neppure ci porta al di là dell’evento stesso, in comunione con Dio. Invece, siamo semplicemente di fronte a noi stessi, “rimbalzando” contro noi stessi.Questo lo rende un evento radicalmente fine a se stesso, perché termina in noi, qui e ora, così come siamo. Siamo creature oggetto di grazia, che vivono con pienezza la grazia. Ci accordiamo con il nostro essere. La chiesa, pertanto, ha avuto ragione: lo sport non è culto. Il culto cristiano vero e proprio è la celebrazione liturgica di chi Dio è, con noi. Lo sport è la celebrazione liturgica di chi noi siamo, per conto nostro. Nel culto cristiano, Dio nella sua libertà si impegna a essere presente al suo popolo in questa realtà. Egli perciò fa un passo avanti, per così dire, per inabitare l’azione liturgica, facendosi veramente presente alla creatura nella comunione in Gesù Cristo. Nello sport, invece, si verifica il caso opposto: Dio fa un passo indietro, lasciando vuoto lo spazio che si crea mediante l’azione liturgica, consentendo alla creatura di essere in qualche modo a una certa distanza, nell’integrità propria della creatura. Nello sport ci troviamo a essere miracolosamente noi stessi, rivolti al nostro interno, in quel nostro spazio che non è né Dio né il nulla. Naturalmente, Dio ci crea, ci sostiene e preserva la creazione in ogni momento, ma lo sport è la miracolosa liturgia della distanza momentanea in cui egli fa come un passo indietro, non coinvolto, rifiutando di influenzare in un qualsiasi modo l’esito di un gioco. A Dio anzi piace guardarci essere noi stessi mentre oscilliamo liberamente tra lui e il nulla. Detto in altri termini, lo sport è solamente a gloria di Dio perché non è per nessun’altra ragione che per se stesso. Dio permette questa autonomia simile a una danza. È la sua generosità. È la sua gloria. Ed è proprio ciò che è tanto stupefacente nello sport. Non è funzionale a Dio. È semplicemente la creatura oggetto di grazia. Ciononostante, culto e sport in un certo senso sono davvero fatti l’uno per l’altro, non da ultimo perché entrambi – a differenza delle necessità della vita – sono radicalmente liberi. Rendiamo liberamente culto a Dio per la sua gloria intrinseca, proprio come pratichiamo liberamente uno sport per celebrare il nostro significato intrinseco. Questa libertà è il punto nel quale culto e sport sono correlati.Per noi cristiani, il giorno di festa è il tempo libero al cui servizio è posto il nostro lavoro. È un tempo a parte per la ri-creazione, per ricostruirci facendo memoria di chi siamo nella non produttività di quel singolo giorno della settimana. Alla fine delle nostre fatiche, noi cristiani ci raduniamo in assemblea per cantare le lodi di Dio, in Gesù Cristo, che ha condiviso in maniera mirabile con noi l’eterno valore della vita in Dio. Ma i cristiani possono anche intessere nel loro sabato (in quanto giorno della ri-creazione) la liturgia della contingenza creata. Lo sport domenicale, come il culto e il riposo domenicali, ci permette di entrare in risonanza con la nostra natura non seria, rammentandoci del fatto che non siamo importanti e che siamo investiti di valore solo in virtù della grazia e non delle opere. In parole semplici, lo sport fa da complemento alla liturgia della grazia, modellata sul settimo giorno. Il compito per i cristiani è illustrare cosa c’è al fondo dello sport. Possiamo aiutare le persone a comprendere perché è così popolare. Possiamo spiegare cosa c’è di tanto bello nello sport. Possiamo indicare ai suoi tifosi (negli stadi, nei parchi, nei campi da gioco o nel giardino dietro casa) che si stanno godendo una liturgia della contingenza: un modo, meravigliosamente non necessario, ma internamente ricco di significato, per armonizzarsi con la propria vita non necessaria, ma ricca di significato in quanto creature di Dio. È per questo che amiamo lo sport. E questo è poco noto. Lo sport parla della nostra identità più profonda. È destinato a riverberare la contingenza creaturale che ci contraddistingue.
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